Diritti

L’affettività in carcere non è un lusso, ma un diritto: è ora di affrontare questa sfida cruciale

Con la pronuncia n.10 del 26 gennaio 2024, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della Legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta, previi determinati requisiti, possa essere ammessa a svolgere colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, in pratica ritenendo ammissibile il coltivare momenti di affettività intima anche nel corso dell’esecuzione penale in carcere.

Una decisione, quella della Corte Costituzionale, che sta per impattare in maniera fragorosa con l’attuale organizzazione del sistema penitenziario italiano andando a coinvolgere contemporaneamente gli organi centrale e territoriali dell’Amministrazione penitenziaria (il Dap), il personale delle carceri in particolare di Polizia penitenziaria, la magistratura di sorveglianza (la questione di illegittimità era stata promossa dal magistrato di sorveglianza di Spoleto), le autorità politiche del Ministero della Giustizia (il Ministro Nordio e il sottosegretario delegato, della Lega, Andrea Ostellari) e il Parlamento.

Il Legislatore, infatti, dovrebbe modificare la norma nella parte dichiarata illegittima, ma i richiami nella motivazione della sentenza agli articoli 2, 3, 13, 29, 30, 31 e in particolare all’articolo 117 – comma 1 della Costituzione, con riferimento agli articoli 3 (divieto di tortura) e 8 (rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo lasciano pochi margini di attesa, pena l’ennesima condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo. L’Amministrazione penitenziaria, quindi, dovrebbe muoversi senza ulteriori indugi e come negli ultimi tempi non è più abituata a fare, ma anche alla luce degli ultimi gravi eventi penitenziari la soluzione risulta ardua per un duplice ordine di problemi.

In primo luogo le infrastrutture e il personale: in una missiva che data allo scorso mese di maggio il Dap ha chiesto alle direzioni degli istituti penitenziari sul territorio di comunicare l’esistenza di spazi idonei anche in termini di dignità e riservatezza e su circa 200 sedi non oltre 50 avrebbero dato la propria adesione, essenzialmente per la realizzazione di strutture prefabbricate esterne alle aree detentive, tenuto conto che la stragrande maggioranza degli istituti di pena è in debito di manutenzione e abbisognevole di prolungate ristrutturazioni; inutile dirlo, mentre si parla di nuove carceri e si nomina un commissario straordinario per l’edilizia, l’idea di creare “stanze dell’amore” in strutture dismesse sembra ridurre la complessità della dimensione affettiva a quattro mura, un letto e un materasso.

Riguardo, poi, al personale addetto alla sorveglianza interna e, quindi, di Polizia Penitenziaria, l’attuale carenza media degli organici è di circa il 15% con punte di oltre il 30% in alcune sedi e con conseguente scopertura di posti di servizio essenziali e conseguente eccessivo aggravio dei carichi di lavoro; né esiste una specifica formazione professionale per un’attività di vigilanza del tipo richiesto e solo apparentemente priva di rischi e che gli addetti del Corpo considerano del tutto inappropriata alle proprie espresse attribuzioni di polizia, se non equivalente ad un inaccettabile voyeurismo istituzionale.

Inoltre, rispetto alla seconda criticità della vicenda, l’affettività dietro le sbarre non dovrebbe essere un capriccio o una concessione benevola e finanche direttamente premiale, ma un diritto fondamentale che impatta profondamente sia sui detenuti che sui loro partner liberi, seppur condizionati dalla vicenda giudiziaria.

Come l’etere, la quintessenza teorizzata da Empedocle che permeava e connetteva terra, acqua, aria e fuoco, l’affettività potrebbe diventare il sesto elemento del trattamento penitenziario. Questo “sesto elemento” andrebbe non solo ad affiancare lavoro, istruzione, formazione, religione, attività culturali, ricreative e sportive, ma ne condenserebbe i risultati fungendo da catalizzatore cruciale per i processi di umanizzazione del carcere e di risocializzazione dei detenuti, perché quanto mai vicino alla vita reale, ma anche in questo caso l’organizzazione dell’attività trattamentali nelle carceri, svolte da tutto il personale penitenziario e poi, nella pratica, esercitate dal Gruppo di Osservazione e Trattamento presieduto dal direttore penitenziario risulterebbe oggi del tutto inadeguata, come l’alto indice delle recidive espressamente indica.

Per tali ragioni, non si tratta di un problema che si risolve con soluzioni improvvisate e richiede un dibattito serio e il coinvolgimento di esperti, in prima linea gli operatori del trattamento e della sicurezza, se si vuole che l’affettività in carcere non sia da considerarsi un lusso, ma un diritto e uno strumento potente di riabilitazione e reinserimento sociale. È, quindi, giunto il momento di affrontare questa sfida, probabilmente cruciale, con la serietà e la profondità che merita, dando concreto seguito al monito della Consulta, a beneficio dell’intera società. E in questo percorso, è fondamentale riconoscere i ruoli specifici di ciascun attore del sistema penitenziario, lasciando alla Polizia Penitenziaria i compiti che le competono, senza ingerenze nelle relazioni intime in carcere.