Uno “Stato ostile“. Così dal 17 ottobre la Costituzione nordcoreana definisce ufficialmente la Corea del Sud, dopo una revisione ampiamente attesa che il quotidiano statale Rodong Sinmun ha definito “inevitabile e legittima”. Da circa un anno, la tensione tra le due Coree – firmatarie nel 1953 di un armistizio ma formalmente ancora in guerra – è in crescita verticale. Martedì il Nord ha fatto saltare in aria alcuni collegamenti stradali e ferroviari lungo il confine condiviso. Una mossa che i media statali hanno descritto come “parte dell’implementazione graduale per separare completamente [le Coree]”.

Trattandosi di infrastrutture ormai in disuso, l’operazione ha perlopiù un valore simbolico. Ma basta a certificare la drastica inversione a U rispetto alla fase di riavvicinamento di sei anni fa, quando nel corso di uno storico incontro il leader nordcoreano Kim Jong-un e l’ex presidente sudcoreano Moon Jae-in dichiararono con i lucciconi agli occhi: “La guerra è finita”. Nel frattempo a Seul si è insediato un nuovo governo conservatore. Negli Stati Uniti, invece, fallita la “mediazione” di Donald Trump, l’amministrazione Biden ha archiviato la strategia del dialogo per tornare a puntare sulla deterrenza militare. Anche grazie alla solida rete di alleanze con i “like-minded countries” dell’Asia-Pacifico.

Le avvisaglie di uno strappo con il Sud risalgono al dicembre 2023, quando Kim Jong-un ha dichiarato di non essere più interessato a perseguire la riunificazione, obiettivo rincorso dai primi anni Duemila con scarsa costanza ma mai abbandonato completamente. Da allora Pyongyang ha proceduto a smantellare le agenzie incaricate di gestire i rapporti intercoreani, mentre a giugno il Sud ha sospeso l’accordo del 2018 (che prevedeva la progressiva distensione delle relazioni bilaterali), in risposta al lancio da parte del Nord di palloni aerostatici carichi di rifiuti verso il territorio sudcoreano.

Ora il dubbio è se quella nuova etichetta di “Stato ostile” possa anticipare l’utilizzo di qualcosa di più offensivo di semplici palloncini. Tanto più che negli ultimi giorni l’avvistamento di droni (attribuiti al Sud) sui cieli di Pyongyang ha spinto Kim a chiedere all’esercito una “azione militare immediata“. Difficile immaginare che siano davvero i primordi di una “guerra calda”. Anche se le provocazioni incrociate accrescono il rischio di incidenti. Eventualità che, secondo gli esperti, diventerà più probabile nel caso in cui gli emendamenti costituzionali includano nuove rivendicazioni territoriali attorno al confine marittimo occidentale conteso tra le due Coree e dove negli ultimi 25 anni si sono già verificati spargimenti di sangue.

D’altronde, non è insolito che il regime utilizzi toni rodomonteschi. E il più delle volte lo fa con fini strategici, non realmente bellicisti. Per Antonio Fiori, docente di Storia e istituzioni dell’Asia presso l’Università di Bologna e professore aggiunto presso la Korea University di Seoul, più che a una guerra siamo davanti a un “cambio di paradigma”: “È plausibile pensare che probabilmente qualunque idea di riunificazione sia da archiviarsi dal punto di vista di Pyongyang – spiega l’esperto a Ilfattoquotidiano.it – Quello che Kim esprime è che fondamentalmente l’atteggiamento dei sudcoreani è sempre stato ostile, senza fare alcun distinguo tra amministrazioni conservatrici e progressiste. Ciò in concreto consegna al passato la visione tradizionale di Pyongyang in base alla quale le due Coree dovessero essere viste come una singola nazione a cui restituire l’unificazione”.

Di conseguenza, secondo Fiori, è necessario un cambiamento di atteggiamento attraverso una postura più aggressiva con l’obiettivo di indebolire la stabilità sociale al Sud. Anche se “è lecito pensare che questo atteggiamento da parte della Corea del Nord possa condurre invece a una più accentuata radicalizzazione della posizione sudcoreana, soprattutto tra le fila delle forze politiche più conservatrici”, prevede il professore. Non va trascurato inoltre il contesto politico ed economico del Regno eremita. “È plausibile che questo pronunciamento di Kim sia stato fatto anche in funzione interna, in un momento in cui i prodotti culturali provenienti dalla Corea del Sud stanno diventando sempre più popolari tra i nordcoreani. Ciò viene visto da Kim come una minaccia potenzialmente ferale per la stabilità del regime e quindi da allontanare con qualunque mezzo”, conclude Fiori.

Dello stesso avviso Gianluca Spezza, professore associato presso l’American University of Kurdistan (AUK) di Duhok, secondo il quale, “Kim Jong-un vuole il ritorno di un governo sudcoreano anche più a sinistra di quello di Moon Jae-in per continuare il progetto confederativo”. Il motivo è semplice: “La realtà è che oggi come 30 o 40 o 60 anni fa, l’ unica, intoccabile fonte di legittimità per la dinastia Kim è quella relativa alla sua identità di unico Stato legittimo per tutti i coreani (articolo primo della Costituzione, in ogni edizione) e alla riunione di tutto il popolo coreano sotto uno Stato coreano”, spiega l’esperto a Ilfattoquotidiano.it.

A completare il quadro concorre un fattore esterno: l’attenzione costante del regime nordcoreano per il “declino americano”. Declino che – secondo Spezza – avverrebbe più rapidamente in caso di una vittoria democratica alle presidenziali, considerata la scarsa esperienza di Kamala Harris in politica estera. Pyongyang sta quindi alzando la voce per richiamare l’attenzione della futura amministrazione. Con un obiettivo chiaro: servono “aiuti e varie concessioni, dato che da anni, tra Covid, Ucraina e ora Medio Oriente di nuovo in fiamme, tutti – ma soprattutto Washington – si sono dimenticati della Corea del Nord”. “L’unica cosa che può spaventare davvero Kim – avverte l’analista – è la possibilità di passare molti anni senza ricevere fondi o attenzioni dagli Stati Uniti di cui ha costante bisogno. Questo è un pericolo esistenziale molto più concreto di qualsiasi questione strategica o militare nel Pacifico”.

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