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L’uccisione di Sinwar arriva nel momento sbagliato per Israele: Usa e Ue ora chiedono la tregua. Netanyahu: “Il lavoro non è finito”

“I conti sono stati regolati”. È con queste parole che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha tracciato una croce rossa sulla foto del ricercato numero uno, l’ideatore del massacro del 7 ottobre. Le riprese del drone che lo mostrano con un braccio amputato, privo di forze, chino su se stesso e rassegnato alla propria fine imminente, con solo il lampo di una reazione nei confronti della videocamera, sono le immagini che consegnano Yahya Sinwar al passato, lo scalpo del nemico che Bibi stringe stretto in mano mostrandolo alla piazza. Ma la sua uccisione, avvenuta per caso dato che i servizi israeliani non sapevano che il leader di Hamas si trovasse in quell’edificio di Rafah dove ha trovato la morte per mano delle Idf, arriva in un momento poco favorevole per Israele: la pressione internazionale per un cessate il fuoco che favorisca il ritorno a casa degli ostaggi, adesso, è destinata a crescere. Ma da Tel Aviv non sembrano sentirci: “Il lavoro non è finito”.

L’impantanamento dei colloqui per un cessate il fuoco veniva motivato col fatto che Sinwar fosse ancora in circolazione. A quanto sostenevano gli Stati Uniti, che lo hanno ribadito anche nelle scorse ore, era lui il grande ostacolo a un cessate il fuoco e a un accordo sul rilascio degli ostaggi catturati il 7 ottobre 2023. Un po’ per volere suo, un po’ perché Israele non aveva alcuna intenzione di deporre le armi senza poter stringere tra le mani il trofeo di caccia più ambito dopo aver raso al suolo Gaza. Il 17 ottobre, però, la scusa per il prosieguo della guerra nella Striscia è sparita.

I primi a farlo notare all’alleato sono proprio i fedelissimi americani. Arrivato a Berlino per il Quartetto che si terrà alla presenza anche di Emmanuel Macron, Keir Starmer e Olaf Scholz, il presidente Usa ha detto di nutrire “maggiori speranze” per un cessate il fuoco e ha anticipato una missione in Israele del segretario di Stato, Antony Blinken, entro i prossimi quattro o cinque giorni. “C’è ora l’opportunità per un ‘day after‘ a Gaza senza Hamas al potere e per una soluzione politica che offra un futuro migliore a israeliani e palestinesi. Yahya Sinwar era un ostacolo insormontabile al raggiungimento di questi obiettivi. Questo ostacolo ora non esiste più”, aveva dichiarato sempre l’inquilino della Casa Bianca dopo l’ufficialità dell’uccisione del capo di Hamas, paragonandola a quella di Osama bin Laden per gli americani. Mentre la candidata Dem, Kamala Harris, ha detto che “la morte di Sinwar è una chance per mettere, finalmente, fine alla guerra a Gaza”.

Dello stesso tenore anche le parole dei principali leader europei. Per Macron “questa giornata segna una svolta e un successo militare per Israele”, ribadendo poi l’appello affinché “tutti gli ostaggi siano liberati e la guerra possa terminare”. Giorgia Meloni ha detto invece che “con la morte di Yahya Sinwar viene meno il principale responsabile del massacro del 7 ottobre 2023. La mia convinzione è che ora si debba iniziare una nuova fase, è tempo che tutti gli ostaggi siano rilasciati, che si proclami un immediato cessate il fuoco e che si avvii la ricostruzione a Gaza”.

Chi non sembra essere d’accordo, però, è proprio Israele. Mentre l’esercito ha allargato in questi mesi i fronti di guerra, impegnandosi in un’operazione di terra in Libano, in uno scontro a distanza con gli Houthi yemeniti e in uno scambio di bombardamenti con l’Iran, l’intenzione di chiudere il capitolo Gaza non è mai emersa. Anzi, nonostante la morte di Sinwar, Netanyahu e i vertici militari hanno subito chiarito che “il lavoro non è finito”, senza specificare se si riferissero solo alla liberazione degli ostaggi.

Se si guardano le tempistiche, poi, quello che può essere considerato il principale successo militare d’Israele da un anno a questa parte arriva in un momento poco favorevole. Negli Stati Uniti si voterà tra tre settimane e non è un segreto che Netanyahu speri in una vittoria di Donald Trump per avere carta libera in Libano e Cisgiordania. Adesso, però, le pressioni dell’amministrazione, che trarrebbe vantaggi interni da uno stop al conflitto a Gaza, aumenteranno come prevedibile. Tel Aviv dovrà quindi resistere fino a gennaio, quando sarà noto il nome del prossimo presidente degli Stati Uniti, mentre gli alleati estremisti interni sbraitano chiedendo di continuare la guerra a Gaza. Nel caso in cui alla Casa Bianca andasse Kamala Harris, queste pressioni continueranno e lo Stato ebraico dovrà necessariamente fare delle concessioni per evitare lo stop all’invio di armi già minacciato da Washington. All’opposto, la vittoria di Trump risolverebbe a Netanyahu ogni tipo di problema. Fino a quel momento, l’uccisione di Sinwar sarà anche e soprattutto fonte di nuove pressioni che il governo avrebbe volentieri evitato.

X: @GianniRosini