“Voi andate, che vi raggiungo dopo in bicicletta” aveva detto Moussa Diarra agli amici del Ghibellin Fuggiasco, sabato pomeriggio. Gli altri ragazzi africani avevano caricato su un camioncino anche il suo zaino, per raggiungere la villa di Quinzano, alla periferia di Verona, che hanno riaperto, ripulito e occupato per due giorni, dopo vent’anni di abbandono. Un segno di provocazione e di proposta. Perché il Ghibellin, in centro storico, è fatiscente e deve chiudere, con il problema di quaranta extracomunitari, tutti con permesso e contratto di lavoro, che non sanno dove trascorrere l’inverno. Ma anche una richiesta agli Istituti Civici di Servizio Sociale proprietari dell’immobile, che avevano risposto con una diffida.

Moussa Diarra, 26 anni, nato in Mali, non è mai arrivato a Quinzano. Ha girato per Verona, ha aggredito alcuni vigili urbani, poi domenica mattina è stato ucciso da un poliziotto in stazione mentre stava dando in escandescenze, armato di coltello. Una decina di ore dopo a Quinzano è arrivata la notizia che la vittima era proprio lui. Il lavoro e la festa si sono bloccate. Decine di persone sono tornate al Ghibellin Fuggiasco e hanno discusso fino a tarda sera. Per assorbire il dolore, metabolizzare l’evento, la sorpresa, lo sbigottimento. Per loro Moussa era una persona fragile, bisognosa di aiuto, da alcuni mesi in stato di depressione. Per questo vogliono capire che cosa è accaduto, come è possibile che sia avventato prima contro i vigli urbani, impegnati a rilevare un incidente, poi contro i poliziotti a Porta Nuova.

“Era uno dei 40 del Ghibellin Fuggiasco”, racconta Giorgio Brasola, portavoce dell’associazione sociale Paratodos, impegnata a tutelare gli extracomunitari in una città piena di case vuote, che nessuno vuole affittare a chi viene da lontano. Nemmeno se ha un permesso di soggiorno e un lavoro. “Moussa era arrivato dal Mali quando non aveva ancora 16 anni. Era approdato a Lampedusa, poi era cominciata la sua ricerca di un posto dove vivere e lavorare – ricostruisce – Il suo sogno era però quello di tornare nel suo paese, dove con i risparmi che mandava alla famiglia aveva cominciato a costruirsi una casa. L’aveva già completata a metà e la sua intenzione era quella di andarci, un giorno, per costruirsi una famiglia”.

La vita in Italia per Moussa non è stata facile, come accade per tutti coloro che approdano dopo un lungo viaggio in Africa e nel Mediterraneo. È stato inizialmente ospite in un centro di accoglienza in collina, a Costagrande, poi chiuso perché troppo affollato. Aveva cercato un lavoro e aveva trovato occupazioni temporanee (ma contrattualizzate) in agricoltura. Le campagne del Veronese offrono molte possibilità, purché si voglia lavorare sodo e a lungo. Lo ha fatto, passando per diverse strutture di accoglienza, ad esempio Il Samaritano, gestito dalla Caritas. Alcuni anni fa è approdato al Ghibellin Fuggiasco. In un primo tempo aveva ottenuto un permesso umanitario, ma dopo essere uscito dal Cas, il documento era stato trasformato in permesso di protezione speciale. I contratti a termine si erano alternati, nel ciclo delle stagioni, e gli erano stati sufficienti per ottenere i rinnovi, anche se non sempre permessi e contratti seguono le stesse scadenze e un appuntamento in Questura è spesso una chimera.

Eppure il 10 ottobre scorso Moussa avrebbe dovuto recarsi all’Ufficio Stranieri per ottenere l’ennesimo rinnovo, dopo che il precedente permesso era scaduto nel novembre 2023. Nella sua vita però erano accaduti due fatti gravi. Tre mesi fa in Mali era morto suo padre. Ha potuto piangerlo solo da lontano, non aveva i soldi per tornare a casa. Poi ha cominciato a cadere in depressione. I compagni del Ghibellin Fuggiasco ricordano che stava spesso a letto, era prostrato. Lo ricordano come un giovane che non fumava e non beveva, fedele alle preghiere in moschea. “Di soggetti fragili ne abbiamo più di qualcuno al Ghibellin Fuggiasco”, continua Brasola. “Lo ricordo come un ragazzo tranquillo e discreto” dice uno dei frati della mensa di San Bernardino che frequentava. Alberto Sperotto, ex presidente della Ronda della Carità, ha scritto sui social: “Invece, mi mancherai”. Una risposta evidente alle dichiarazioni di Matteo Salvini che ho commentato la morte di Moussa con un “non ci mancherà”.

Amici, volontari e associazioni hanno organizzato un momento di commemorazione davanti alla stazione di Verona. Tra gli altri, don Paolo Pasetto dell’associazione Sulle Orme ha lanciato l’appello. “Moussa è stato ucciso… la fatica e il dolore di anni nel tentativo di sopravvivere a un sistema persecutorio che costringe migliaia di persone a mendicare, un po’ di pane, un letto, una casa, accoglienza, dignità, cittadinanza… un briciolo di senso di appartenenza… percorrere infinite volte, a piccolissimi passi, interminabili file in attesa di sentir pronunciare il tuo nome, di avere l’ennesima, insufficiente conferma che esisti, che il mondo ti vede e poi… tutto cade nell’ombra ancora una volta, per interminabile mesi, anni, fino alla prossima fila, al prossimo sportello, alla prossima richiesta accolta solo dal silenzio e dal vuoto di umanità che abbiamo creato nel cuore delle nostre città…”.

Il sacerdote ha aggiunto: “Moussa ha subito l’ingiustizia di questo nostro sistema di annullamento e nella sua disperata ricerca di calore umano ha trovato il gelo della morte… non possiamo dimenticare, non dimenticheremo mai più perché ci mancherà immensamente, come quando un figlio non c’è più”. Intanto prosegue l’inchiesta della Procura di Verona per ricostruire che cosa è accaduto domenica mattina in stazione. Telecamere e testimonianze consentiranno di capire che cosa ha fatto Moussa prima di arrivare a Porta Nuova e quando ha affrontato i poliziotti con un coltello, prima di essere stato colpito mortalmente.

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