Scuola

Stop ai test d’ingresso a Medicina, tutte le criticità della riforma: “Esuberi, precarietà e il baronato tornerà protagonista”

La riforma delle modalità di accesso ai corsi di laurea in Medicina e chirurgia non avrà alcun impatto sulla drammatica carenza di personale che oggi osserviamo negli ospedali italiani. Anzi, l’aumento del numero totale degli studenti porterà, a partire dal 2030, ad avere decine di migliaia di medici in esubero rispetto al fabbisogno del Sistema sanitario nazionale. Con il rischio che questa precarietà spiani la strada al “discount” delle prestazioni mediche della sanità privata: i disoccupati accetteranno contratti al ribasso pur di lavorare, con il conseguente crollo della qualità delle prestazioni. Ne sono convinte le associazioni maggiormente rappresentative della categoria, Giovani Medici per l’Italia (Gmi), Anaao Giovani e Associazione Liberi Specializzandi. “

Questa riforma è una italianizzazione del modello francese, aspramente criticato in patria – spiega a ilfattoquotidiano.it il presidente di Gmi, Antonio Cucinella -. L’intero impianto del provvedimento è guasto, non solo l’idea di aumentare il numero di nuovi iscritti al corso di laurea. Se questa legge verrà approvata, il destino dei futuri medici sarà nelle mani dei professori universitari e del loro giudizio soggettivo. Con questo ‘Ddl Raccomandazioni’ il baronato, con tutta la sua brutalità, ritornerà a essere protagonista del sistema universitario”.

Il riferimento è alle modalità con cui il disegno di legge delega, approvato in Commissione Cultura del Senato, punta a selezionare i futuri medici. Ancora non si conosce nello specifico il testo della riforma – che dovrà essere definito dal Governo – ma il contenuto è stato anticipato dalle parole dei promotori politici e da quelle della ministra dell’Università Anna Maria Bernini.

Il provvedimento abolirà lo sbarramento previsto dal test di ingresso iniziale. Chiunque vorrà – secondo le stime circa 70mila studenti – potrà iscriversi al primo anno di medicina. Alla fine del primo semestre, uguale per tutti in ogni Ateneo d’Italia, verrà stilata una graduatoria nazionale, basata sulla media dei voti e sui crediti formativi ottenuti con il superamento degli esami. I primi 25mila studenti – 5mila in più di quanti previsti al momento – proseguiranno gli studi di medicina. Gli altri potranno spendere i crediti accumulati in un altro corso di laurea. Cambiano le modalità di selezione, dunque, ma il numero programmato resta, seppur con un ritocco verso l’alto non necessario secondo le associazioni.

“È un modello ancora peggiore di quello ipercompetitivo francese, che in ogni caso in patria è responsabile di un aumento del 25% di prevalenza di malattie psichiatriche, come burnout e depressione, per gli studenti del primo anno di medicina – prosegue Cucinella -. Almeno in Francia però i voti degli esami, che poi concorrono a stilare la graduatoria, sono assegnati in modo oggettivo, attraverso dei test scritti a crocette. E non come da noi con parametri soggettivi, legati al singolo professore”. Per il presidente di Gmi, il test d’ingresso non andava eliminato completamente, solo riformato e migliorato. “Aveva delle gravi criticità ma era il miglior sistema che avevamo – spiega -. Dovevamo offrire a tutti, e non solo a chi ha le risorse economiche, le stesse possibilità di prepararsi adeguatamente al test. Bisognava fornire una bibliografia chiara e gratuita, e i set di domande dovevano essere preparati in maniera congrua, con quesiti chiari e pertinenti, eliminando gli argomenti di cultura generale”.

Secondo le associazioni, sarà impossibile uniformare davvero il primo semestre, per far sì che tutti abbiano la possibilità di competere alla pari con gli altri pretendenti al posto. “L’organizzazione dei corsi varia molto nelle diverse Università – commenta il presidente di Gmi -. Gli studenti potrebbero essere penalizzati solo perché iscritti in un Ateneo meno efficiente, che magari pianifica il calendario degli esami in un modo peggiore. E soprattutto il voto assegnato dal singolo professore acquisisce ora un peso enorme. Saranno i docenti a decidere chi va avanti e chi no in base al loro metro di valutazione. Chi avrà il professore più largo di manica potrà fare il medico, chi avrà quello più esigente no. E ci saranno sicuramente dei raccomandati”. Un altro timore è che si inneschi la corsa all’Ateneo più indulgente: le università potrebbero abbassare le loro pretese e fare leva su questo per ottenere più iscritti, attirati dalla possibilità di ottenere voti alti più facilmente.

Resta inoltre da capire come verranno accolti nelle Università i circa 70mila studenti che si iscriveranno al primo semestre aperto. Le strutture della grande maggioranza degli Atenei non sono in grado di accogliere un numero così alto di matricole. E anche il personale universitario è insufficiente per garantire gli standard formativi necessari. Anche se venissero stanziati dei fondi in più per permettere alle università di adeguarsi, ci vorrà molto tempo per completare il processo. Sarà difficile che la riforma possa essere applicata già nel 2025, come auspicato da Bernini, anche considerando i tempi parlamentari che il provvedimento dovrà rispettare prima dell’approvazione.

Ma la paura principale delle associazioni è quella di ritrovarsi tra qualche anno con una pletora medica da gestire. Vista la durata del percorso di formazione di un medico, infatti, aumentare il numero di studenti di medicina oggi significa avere un professionista pronto, nel migliore dei casi, tra 10 anni, quando il fabbisogno del Ssn sarà inferiore. “Con la fine del 2028 la gobba pensionistica che stiamo vivendo ora si sarà risolta – spiega Cucinella -. I nuovi medici che entreranno nel sistema saranno di più dei pensionati che ne usciranno. Questo vuol dire che, mantenendo il trend attuale di iscritti ai corsi di laurea di medicina, entro il 2030 avremo 30mila camici bianchi in esubero. Professionisti che saranno costretti a emigrare o a entrare a far parte del discount della sanità: i privati potranno assumere i medici disoccupati con contratti capestro da 900 euro al mese. E il tracollo della qualità delle prestazioni sarà inevitabile”, conclude.