Cinema

Artista vero o personaggio folkloristico? Nel documentario Il Re di Napoli – Storia e leggenda di Mario Merola c’è la risposta

Felicissima sera. È buffo scrivere di un documentario su Mario Merola quando tra 48 ore esce nelle sale cinematografiche l’ultimo film di Paolo Sorrentino, Parthenope. In nemmeno quarant’anni la rappresentazione del macrocosmo napoletano, le sue radici popolari, la silhouette del Golfo, è mutata drasticamente. Dalla veracità profonda e manichea del sottoproletariato meroliano, alla sofisticazione minimalista, elaborata, crepuscolare della borghesia sorrentiniana. Non che in Il Re di Napoli – Storia e leggenda di Mario Merola, diretto da Massimo Ferrari, sezione Freestyle alla Festa di Roma, si cerchi il benché minimo confronto.

Eppure questa fervente animosità del legame tra preponderanza dell’artista e composizione socio culturale del pubblico – partenopeo e non solo – segna trasversalmente entrambi. E sarebbe stato curioso prendere proprio la scia di un Eduardo, di un Martone, di un Servillo e poi di un Sorrentino, per capire cosa ne pensassero del re della sceneggiata. Nel lavoro di Ferrari dobbiamo “accontentarci” del “mondo Merola” ricordato dai suoi collaboratori più prossimi (Ernesto Mahieux) e dei suoi celebri epigoni (Nino D’Angelo, Gigi D’Alessio).

La sceneggiata era fatta per anime semplici, dicono gli intervistati, c’era totale adesione del popolo e Merola era per loro come un “proprio familiare”. I teatri affollati per tre spettacoli al giorno, contadini della provincia e sottoproletari in fila, ma raramente la borghesia progressista andava a vedere quelle sceneggiate con al centro l’uomo semplice che subisce un torto, vittima innocente che si vendica con violenza. Sul palco, come spiega Goffredo Fofi l’ “irruzione” di Merola, l’improvvisa apparizione fisica, era una sorta di magica epifania, seppur molto statica, di adesione incondizionata tra pubblico e protagonista. E da una puntata di Blitz Gianni Minà sottolinea pure, collegandosi con il teatro Smeraldo di Milano, come si facesse a botte anche al Nord per comprare i biglietti delle sceneggiate meroliane. Non mancano le accuse, le critiche veementi a quella canea di temi del volgo: plebeismo, delitto d’onore, camorra, donne mostrate o come madri o prostitute. E Merola risponde, proprio da una trasmissione di Costanzo che potrebbe essere Bontà Loro: “Ma perché in Shakespeare le passioni non esistono?”.

Del resto Lo zappatore che cos’è se non, come ricorda Fofi, “un discorso di classe”? Quel “disprezzo della plebe per i ricchi che vivono sulle spalle delle fatiche dei miserabili”? Il dibattito è ovviamente aperto, nonché attuale: Merola artista vero o personaggio folkloristico? Figura dimenticata e sottovalutata dall’élite snob come fu per Totò e Luciano De Crescenzo, nei rispettivi ambiti, o è “il nostro Johnny Cash” come si dice nel documentario? Ferrari raccoglie diversi spezzoni d’epoca dai set cinematografici dove Merola, grazie a un regista come Alfonso Brescia, traspose le sceneggiate pure con un buon successo di pubblico; poi ne ricorda la cieca ossessione per il gioco d’azzardo (“si sarà fumato 40 miliardi”), dal lotto alla roulette. Per il resto, allusioni a legami discutibili e discussi, niente polemiche. Al massimo l’amicizia con Franco Franchi e l’amore per il cane Pippo che alla sua morte si gettò per le scale.