Non solo il nuovo decreto. All’indomani del Cdm che ha reso norma primaria la lista dei Paesi sicuri arrivano anche i ricorsi del Viminale contro i decreti dei giudici di Roma che hanno invalidato i trattenimenti in Albania dei 12 egiziani e bangladesi applicando l’ormai nota sentenza della Corte di Giustizia Ue. Nel testo dei ricorsi presentati in Cassazione l’avvocatura dello Stato non usa parole meno pensanti di quelle sentite ieri in conferenza stampa dal Guardasigilli Nordio, che ha accusato i giudici di non aver compreso la sentenza Ue, di averla applicata in modo parziale con motivazioni carenti. In altri termini, i ricorsi fanno lo stesso, parlando di “ordinanze errate e ingiuste“, viziate da motivazione apparente, addirittura in violazione della stessa direttiva europea 32/2013 al centro della sentenza Ue applicata dai giudici romani.

Il Viminale chiede intanto la remissione dei ricorsi alla Sezioni Unite della Cassazione, rilevando novità rispetto alla giurisprudenza in materia. Poi le motivazioni. Le ordinanze dei giudici, si legge, sono viziate dalla disapplicazione della lista dei Paesi sicuri, quella ormai superata dal nuovo elenco inserito nel decreto di lunedì. Disapplicazione “sulla base di un’interpretazione delle norme dell’Unione”, che “travisa la sentenza del 4 ottobre 2024 della Corte di Giustizia UE“. Ed ecco il punto che ieri nella conferenza stampa di Nordio, Mantovano e Piantedosi era rimasto sotto traccia. Secondo il Viminale la sentenza si era espressa solo sull’impossibilità di designare un Paese sicuro escludendo parti di territorio. E non, come ritenuto dai giudici, sull’esclusione di categorie di persone a rischio, ipotesi che riguarda la maggior parte dei Paesi considerati sicuri dall’Italia, compresi il Bangladesh e l’Egitto. I giudici hanno applicato la sentenza in modo estensivo perché l’articolo 37 della direttiva in questione aveva abrogato la precedente normativa che conteneva entrambe le ipotesi, di cui nessuna è rientrata nell’articolo 37 per il quale la Corte Ue prescrive una interpretazione “restrittiva”, alla lettera.

Una scelta che i ricorsi del Viminale contestano: “Nella sentenza non vi è alcun riferimento alla possibilità per gli Stati di precisare informazioni in merito a categorie di soggetti”. Rivendicando la legittimità della precedente lista di 22 Paesi che in merito all’esclusione di categorie di soggetti, dunque, rimarrebbe legittima lasciando comunque alla persona la possibilità di rilevare “gravi motivi” per ritenere non sicuro il suo Paese di origine. Insomma, una lettura del tutto diversa da quella dei giudici di Roma, le cui ordinanze si chiede vengano cessate “per aver affermato l’errato principio“. Inoltre, i ricorsi accusano i giudici di aver scritto ordinanze viziate da “assoluta carenza di motivazioni” (art. 360 comma 1 c.p.c.). E anche qui si tratta di una parafrasi delle parole pronunciate in conferenza stampa da Nordio. I giudici non sarebbero entrati nel caso singolo, ritenendo di non dover esaminare individualmente la provenienza da Paese sicuro, a loro avviso delegittimata ai fini della procedura in Albania dal principio generale enunciato dallo stesso articolo 37 della direttiva 32/2013. Una ricostruzione normativa che per il Viminale è errata e che avrebbe omesso di motivare perché il Paese in esame non possa essere considerato sicuro ai fini delle procedure d’asilo.

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