Ambiente & Veleni

Transizione ecologica, lo studioso Greenfield: “I governi hanno fallito, impariamo dagli zapatisti del Chiapas”

“Avevo sottovalutato il ruolo del risentimento anti-élite sulla questione climatica”. Adam Greenfield è un pensatore eterodosso, studioso di internet e urbanista, con un passato da sergente nell’unità specializzata in operazioni psicologiche dell’esercito degli Stati Uniti, ma anche da designer alla Nokia. Il suo interesse per il cambiamento climatico nasce dopo aver vissuto l’uragano Sandy nel 2012, come racconta nel suo ultimo libro Emergenza. Come sopravvivere in un mondo in fiamme (Einaudi), e ha un carattere essenzialmente politico. Oggi, 12 anni dopo quell’esperienza, Greenfield si spiega il riflusso delle politiche ambientali in Occidente con la congiunzione tra la diffusione del risentimento politico e la debolezza e la vacuità della ricetta “green” proposta dalle élite politiche ed economiche negli ultimi anni. “Gli interessi dei negazionisti saranno pure dannosi, ma hanno certamente il vantaggio della chiarezza e della coerenza interna. Non possiamo affidarci alle ricette neoliberali”.

Il suo libro inizia con l’uragano Sandy su New York, nel 2012, come una rottura nella nostra percezione della crisi climatica. Gli Stati Uniti hanno appena attraversato una nuova emergenza con la tempesta Helene e l’uragano Milton, e stavolta la potenza distruttiva del clima estremo è stata chiaramente imputata al cambiamento climatico. È un punto di svolta nella coscienza Usa?
Per una parte della popolazione americana, forse addirittura la maggioranza, sono sicuro che sia così. Ma all’opposto c’è una minoranza estremamente significativa che sostiene che la crisi climatica sia o un’invenzione dei liberal e della sinistra, o peggio la nuova arma studiata da un’élite malevola per distruggere il loro stile di vita. Quest’ultimo è un aspetto che, stupidamente, non avevo previsto quando ho scritto il mio libro Emergenza: il grado di estrema politicizzazione anche degli aspetti più marginali dell’America contemporanea, come indicatore di tensioni irrisolte che attraversano la cultura di questo Paese. Parlare di un “punto di svolta” nella coscienza collettiva mi sembra non colga proprio la questa dinamica sotterranea e ben più saliente del pensiero americano.

Dire che l’aumento della potenza distruttiva degli uragani è colpa del cambiamento climatico, non rischia secondo lei di distogliere l’attenzione della gente dalla responsabilità politica del governo, nella misura in cui dà agli eventi climatici estremo un senso di irreversibilità?
La difficile verità che dobbiamo interiorizzare è che le condizioni meteorologiche estreme sono irreversibili, almeno nell’arco della vita di chiunque sia ancora in vita. Gli effetti che stiamo vivendo sono la conseguenza di decisioni prese decenni fa: anche se l’intera economia globale diventasse in qualche modo a zero emissioni di carbonio da un giorno all’altro, ci troveremmo comunque ad affrontare perturbazioni estreme per molti, molti anni a venire. Questo non vuol dire che dobbiamo semplicemente perdonare i responsabili o evitare di chiedere loro conto del loro operato. Ma personalmente faccio fatica a concepire un ordine di responsabilità commisurato all’entità del crimine.

Ha visto forme di auto-organizzazione simili a quelle di Occupy Sandy nelle comunità della Florida di oggi (dopo Milton)?
Sì, e in effetti mi sembra che il ricorso a reti di mutuo soccorso come quelle sorte dopo gli uragani Katrina e Sandy sia ormai un’abitudine negli Stati Uniti. Quando la tempesta Helene ha colpito, i miei social network si sono riempiti di informazioni sul coordinamento dal basso degli sforzi di soccorso e sulla distribuzione di forniture critiche, che erano già in atto quando Milton è atterrato. Stanno lottando per ciò per cui queste iniziative lottano sempre: non solo la sopravvivenza fisica delle loro comunità, ma la dignità di tutti coloro che sono stati lasciati vulnerabili ed esposti dal modo in cui la nostra società è organizzata.

Quali sono secondo lei le esperienze di auto-organizzazione utili a superare l’attuale emergenza, magari quelle del Sud globale?
Mi ispiro sempre agli zapatisti delle zone rurali del Chiapas, che gestiscono i loro affari su base auto-organizzata ininterrottamente dal 1994, o a ciò che gli abitanti del Rojava hanno realizzato nel loro continuo governo di una società di alcuni milioni di persone, nel caos della guerra civile siriana, senza ricorrere a nessuno dei consueti meccanismi dello Stato. Credo che entrambi abbiano molto da insegnarci su come la gente comune possa assumersi la responsabilità delle decisioni più importanti e produrre dignità e giustizia insieme ai mezzi di sopravvivenza, anche in condizioni di estrema pressione.

Pensa che movimenti ambientalisti come Extinction rebellion o Fridays for future (che sono tornati in piazza proprio la settimana scorsa) siano efficaci?
Fintanto che questi movimenti restano bloccati in un paradigma di protesta no, francamente no. Ogni ora spesa a implorare il governo di rinsavire e fare la cosa giusta è un’ora non spesa per costruire le strutture, gli istinti e le abitudini di pensiero e di pratica di cui avremo bisogno per superare i difficili anni a venire.

In Europa cresce l’impressione che gli impegni presi per raggiungere gli “obiettivi climatici del 2030 e del 2050” e ridurre le emissioni siano andati in fumo, travolti dall’ascesa di una destra “industrialista”, da un lato, e dalle nuove priorità stabilite dall’economia di guerra dall’altro, in conseguenza dei conflitti ucraini e mediorientali. Lei pensa che il “Green new deal” sia fallito?
Beh, voglio essere chiaro: un Green New Deal come lo intendo io – cioè la mobilitazione totale di una società verso la decarbonizzazione e la transizione verso un’economia di produzione a zero emissioni – non è mai stato tentato seriamente da nessuna parte. Quindi non credo sia del tutto corretto definirlo un fallimento. Ma c’è anche un errore di categorizzazione: un tentativo benintenzionato di risolvere un problema utilizzando gli stessi strumenti, le stesse logiche e soprattutto gli stessi valori che lo hanno generato. Concettualmente è debole, non può reggere il confronto con gli sforzi auto-interessati e concertati di chi è deciso a mantenere lo status quo. Gli interessi dei negazionisti e dei conservatori possono essere dannosi, ma hanno certamente il vantaggio della chiarezza e della coerenza interna. Se vogliamo lottare davvero per il Green New Deal dobbiamo farlo nella certezza che le istituzioni liberali non ci salveranno, perché non possono.