di Domenico Tambasco*

Vi trovate in un ambiente di lavoro altamente conflittuale, dove i litigi, gli screzi o le offese gratuite sono all’ordine del giorno? Se pensate al mobbing vi state sbagliando. È vero che per oltre vent’anni il pensiero dominante degli “esperti” ha continuamente richiamato questo fenomeno per spiegare le ragioni di qualsiasi disfunzione lavorativa, tanto da portare a una deriva “panmobbistica”: singole sanzioni disciplinari, ritmi lavorativi intollerabili, discriminazioni, tutto veniva ricondotto a questa categoria mutuata dalle scienze etologiche.

Ma, se tutto è mobbing, nulla è mobbing. Ecco che, sentenza negativa dopo sentenza negativa, ci si è progressivamente resi conto del fatto che il modello di interpretazione della realtà lavorativa, fino ad allora imperante, non era più adeguato alle moderne esigenze di tutela proprie dell’era del lavoro digitale. Si rendeva necessario, allora, un radicale cambio di prospettiva “in stile Earthrise”, l’icastica foto del nostro pianeta ripreso dalla Luna, scattata dagli astronauti della missione Apollo 8 alla Vigilia di Natale del 1968.

Si è così passati dall’aggressore animato da intenti persecutori nei confronti della propria vittima ad un angolo visuale totalmente diverso, che ha nelle discrepanze dell’organizzazione lavorativa il proprio focus. In concreto, se in un ambiente di lavoro conflittuale cerchiamo un mobber animato dalla volontà di estrometterci, potremmo non trovare nessuno (come è stato spesso accertato in innumerevoli sentenze); al contrario, se guardiamo alle possibili disfunzioni organizzative, nella duplice prospettiva della mancata prevenzione e dell’omesso contrasto di situazioni anche solo potenzialmente lesive della salute o della dignità delle singole persone, allora tutto cambia.

Ecco, quindi, che la giurisprudenza ha iniziato via via a censurare “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (cfr. Cass. 31 gennaio 2024, n. 2870; Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692). Si tratta di un nuovo approccio, che mette in risalto la centralità dell’organizzazione dell’impresa, le cui alterazioni costituiscono un’anomalia rilevante anche a norma del Codice civile (art. 2086 c.c.). Fondamentale, pertanto, è l’analisi datoriale dei fattori organizzativi e ambientali che si sostanzia non solo in specifici obblighi di rimozione e di contrasto, ma anche nei doveri di prevenzione e protezione (Cass. 26 febbraio 2024, n. 5061).

Ne deriva, quale diretta conseguenza, la responsabilità del datore di lavoro, il quale sia colpevolmente inerte rispetto agli “obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevanti ai sensi dell’art. 2087 c.c.” (Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692, cit.; Cass. 28 novembre 2022, n. 34976). D’altro canto, la tutela dell’integrità psicofisica delle lavoratrici e dei lavoratori, da intendersi positivamente quale stato di completo benessere fisico, mentale e sociale (art. 2, comma 1, lett. o), d.lgs. 81/2008; cfr. Cass., 7 giugno 2024, n. 15957), “non ammette sconti in ragione di fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva, nella predisposizione di condizioni ambientali sicure” (Cass. 21 febbraio 2024, n. 4664).

Torniamo alla domanda iniziale.

La risposta è in una recente sentenza della sezione lavoro del Tribunale di Rimini (18 luglio 2024, n. 203), che ha affrontato proprio il caso di un dipendente sottoposto, per quasi due anni, a continue offese. Al di là del campionario di insulti che compare nel testo della sentenza, quello che qui interessa è il nocciolo della vicenda. Non possiamo parlare, almeno a prima vista, di un progetto persecutorio o di un’intenzionale volontà di cacciare il dipendente; invece, il contesto che emerge dalle testimonianze è quello di un “lavoro da incubo” che coinvolge la maggior parte dei colleghi: “era solito bestemmiare e urlare”; “l’ambiente di lavoro non era sereno perché spesso io sentivo parlare X a voce molto alta e con linguaggio maleducato”; “L’ambiente di lavoro era opprimente, non era tranquillo e sereno; c’era un controllo fuori dal normale della operatività del singolo dipendente… Io non ricordo toni scurrili, ma sentivo… alzare la voce: era la quotidianità”.

Secondo il giudice riminese, si tratta di “un ambiente di lavoro opprimente, stressante ed avvilente” che, per ciò solo, può configurare la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., nel caso in cui – come nella vicenda in questione – il dipendente subisca conseguenze psicofisiche o pregiudizi alla personalità morale, anche a prescindere da “particolari emotività” o da una sua “soggettiva perturbabilità” (Cass. 21 febbraio 2024, n. 4664, cit.). Se ci pensiamo un attimo, siamo di fronte non solo alla conferma di un’importante evoluzione giurisprudenziale, ma anche e soprattutto a una vera e propria rivoluzione culturale. Alcuni anni fa, impregnati dalla cultura dello “yuppismo”, non resistere alla pressione di ambienti pesantemente stressogeni era sintomo di fragilità personale. Oggi, al contrario, una rinnovata cultura del lavoro condanna senza appello questi esempi come espressione di una grave e intollerabile disfunzione organizzativa, pregiudizievole tanto per il singolo quanto per la stessa produttività aziendale.

* Avvocato giuslavorista, da anni si occupa di conflittualità lavorativa anche come redattore di diversi ddl in materia presentati nella scorsa legislatura

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Successivo

L’inflessibile Giuli

next