Tradurre in azioni l’impegno preso da oltre 190 Paesi con l’obiettivo di proteggere almeno il 30% di terre, oceani, zone costiere e acque della Terra, invertendo la perdita di biodiversità. È l’obiettivo della Cop16, conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità in corso a Cali, in Colombia, fino al primo novembre. A distanza di due anni dalla Cop15 di Kunming-Montreal, dove quell’impegno fu assunto, questa volta la conferenza deve fare i conti con il primo bilancio di una tabella di marcia che va a rilento. Perché l’applicazione di quell’accordo, con obiettivi ambiziosi per il 2030 (il cosiddetto “obiettivo 30×30”), non sta procedendo abbastanza velocemente. I 196 Paesi – esclusi gli Stati Uniti – si erano impegnati a presentare entro la Cop16 una “strategia nazionale sulla biodiversità” che riflettesse la loro parte degli sforzi per raggiungere i 23 obiettivi globali fissati: proteggere il 30% delle terre e dei mari, ripristinare il 30% degli ecosistemi degradati, dimezzare i pesticidi e il tasso di introduzione di specie esotiche invasive, mobilitare 200 miliardi di dollari all’anno per la natura al 2030. Ma solo 33 Paesi firmatari hanno presentato i propri piani di azione (National Biodiversity Strategies and Action Plana, NBSAPs), e le risorse mobilitate restano ben al di sotto dei 20 miliardi di dollari all’anno che i paesi ricchi si erano impegnati a versare entro il 2025, per un totale di 200 miliardi di dollari destinati al Sud globale entro il 2030.
I ritardi nella tabella di marcia sulla biodiversità – Secondo un’indagine congiunta di Carbon Brief e del Guardian, oltre l’85% dei Paesi non rispetterà la scadenza stabilita dalle Nazioni Unite per presentare nuovi impegni per la natura in vista del vertice sulla biodiversità Cop16 in Colombia, mentre solo cinque dei 17 Paesi ‘megadiversi’, ossia che insieme ospitano il 70% della biodiversità mondiale, hanno assunto nuovi impegni per contrastare la perdita della natura. Persino le tre nazioni che detengono la stragrande maggioranza della foresta pluviale amazzonica (tra cui Brasile, Perù e la stessa Colombia) non sono riuscite a presentare nuovi piani per la natura prima dei colloqui, anche se la Colombia l’ha fatto in apertura della Cop16. Molti Paesi non sono riusciti a farlo anche per mancanza di finanziamenti, altri li presenteranno proprio in questi giorni, alla conferenza che conta oltre 15mila partecipanti, tra cui più di cento ministri dell’Ambiente e almeno dieci capi di Stato. Lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres ha chiesto “investimenti significativi” per salvaguardare la natura in un videomessaggio trasmesso alla vigilia dell’apertura della Cop16, invitando i negoziatori a lasciare Cali con impegni a mobilitare altre fonti di finanziamento pubblico e privato da attuare nella loro interezza. “Si tratta di onorare le promesse fatte in termini di finanziamenti e di accelerare il sostegno ai Paesi in via di sviluppo” ha sottolineato, perché “il collasso delle risorse naturali, quali l’impollinazione e l’acqua potabile, causerebbe una perdita annuale di trilioni di dollari per il mondo” dell’economia globale, dove i più poveri sono i più colpiti.
In 32 anni protetto solo l’8,4% degli Oceani – “Mancano sei anni al 2030 e ancora non è stato fatto quasi nessun progresso verso la protezione del 30% degli oceani del mondo. Al ritmo attuale, non raggiungeremo il 30% di protezione in mare prima del prossimo secolo” ha commentato Megan Randles, policy advisor di Greenpeace Uk. Nei trentadue anni trascorsi dal Vertice della Terra di Rio del 1992, in cui è stata istituita la Convenzione per la diversità biologica, solo l’8,4% dell’oceano globale è stato protetto. Di questo, soltanto il 2,7% risulta altamente protetto e sottoposto a rigide misure di conservazione, e la percentuale si riduce allo 0,9% per le aree d’alto mare, che sono al di fuori della giurisdizione nazionale. Secondo le stime di Greenpeace, per raggiungere il 30% nei prossimi sei anni, dovranno essere istituite ogni anno da qui alla fine del 2030 circa 23,5 aree marine protette delle dimensioni della Francia. La situazione non cambia in Italia, dove meno dell’1% dei mari italiani è sottoposto a misure di tutela efficaci. Un’indagine di Greenpeace Italia pubblicata a luglio aveva evidenziato che solo le Amp e i Parchi Nazionali hanno regolamenti efficaci in grado di tutelare la biodiversità marina. Altre aree individuate e definite importanti per la loro biodiversità, come ad esempio il Santuario Pelagos e i Sic (Siti di Interesse Comunitario), invece, rappresentano solo “parchi di carta”, aree in cui non vi è nessuna azione di mitigazione degli impatti antropici.
La sfida della Colombia. E il ruolo dei popoli indigeni – Il governo di Gustavo Petro punta molto su quello che ha ricordato essere “l’evento più grande che abbia organizzato la Colombia di fronte al mondo”. Uccelli appartenenti a oltre 40 specie differenti sono stati registrati nel loro habitat naturale per comporre una versione unica dell’inno nazionale della Colombia, la colonna sonora che accoglie al loro arrivo i delegati dei Paesi di tutto il mondo. “Sta accadendo qualcosa nel pianeta per cui Bogotà sta esaurendo l’acqua, la giungla sta bruciando e i fiumi del Pacifico vengono distrutti. Stanno portando via le basi stesse della vita nella nostra Colombia, il Paese della bellezza, la terza potenza mondiale in termini di biodiversità” ha dichiarato Petro. Il piano colombiano, presentato dalla ministra dell’Ambiente, Susana Muhammad, tra le altre cose punte a estendere le misure di protezione ambientale al 34% del territorio nazionale (l’obiettivo precedente è del 24%) e a destinare il 3% del Pil alla bioeconomia, mentre oggi non si arriva neppure all’1 per cento. Alla Cop 16, il governo punta a raggiungere un accordo sul debito estero dei paesi in via di sviluppo, offrendo in cambio della cancellazione, un impegno formale sulla conservazione dell’Amazzonia ed anche sui finanziamenti ai popoli indigeni a cui si deve la stragrande maggioranza della biodiversità ancora esistente. “Come movimento indigeno amazzonico vogliamo partecipare alla costruzione di documenti, sia tecnici che politici, ma parliamo anche degli aspetti finanziari” di questo vertice, ha spiegato Oswaldo Muca Castizo, presidente dell’Organizzazione dei popoli indigeni dell’Amazzonia colombiana (Opiac). Per il leader indigeno si tratta di “una compensazione necessaria” per la cura che i popoli indigeni hanno prestato alla grande foresta amazzonica “per migliaia di anni”.