Con la pubblicazione in italiano della sentenza del 4 ottobre della Corte di Giustizia dell’Unione europea è finalmente possibile farsi un’idea di quello che i giudici di Lussemburgo hanno detto e di come questa pronuncia impatti sullo scontro tra il governo italiano e i magistrati del Tribunale di Roma che hanno invalidato i trattenimenti di 12 richiedenti asilo nel centro albanese di Gjader. Attraverso un suo portavoce, ieri pomeriggio la Corte di Giustizia ha confermato che di fronte a un richiedente proveniente da Paese designato sicuro la cui domanda è stata respinta, il giudice deve verificare la legittimità della designazione. Un principio generale, ha detto, precisando poi che “le sentenze della Corte sono immediatamente vincolanti per gli Stati membri“. Per giudici e governo, tuttavia, il vincolo in questione ha significati differenti. In conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri di lunedì, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha sostenuto che i giudici romani non abbiano davvero compreso la sentenza della Corte. Parole che sono diventate più chiare l’indomani, nei ricorsi in Cassazione che il Viminale ha presentato contro le “ordinanze errate e ingiuste” che avrebbero travisato la stessa sentenza Ue. Chi vuole la può leggere sul nostro sito e farsi un’idea sull’oggetto principale dello scontro tra governo e toghe, al centro del nuovo decreto legge sui Paesi d’origine sicuri, ma anche dei ricorsi del Viminale. I punti caldi della sentenza sono citati da entrambe le parti. E alcuni tirano in ballo una proposta della Commissione Ue di quindici anni fa.
La posizione dei giudici – Il trattenimento ai fini dell’esame accelerato della domanda d’asilo, la procedura applicata ai richiedenti in Albania in quanto provenienti da Paesi che l’Italia considera sicuri, va convalidato entro 48 dal competente Tribunale di Roma. “L’articolo 37 della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un paese terzo sia designato come paese di origine sicuro qualora talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali per una siffatta designazione”, hanno scritto i giudici nelle loro decisioni citando il punto 83 della sentenza Ue. Aggiungendo di seguito che “la sentenza chiarisce che il principio cosi enunciato deve trovare applicazione anche nel caso in cui risultino escluse determinate categorie di persone“. Nel caso dei trattenuti in Albania, i Paesi di origine sono Egitto e Bangladesh, entrambi considerati sicuri dal governo Meloni ad eccezione di determinate categorie di persone considerate a rischio. Secondo i giudici, l’articolo 37 della vigente direttiva europea 32/2013 va letto nel senso che un Paese è sicuro per tutti o non lo è per nessuno. E questo perché, scrivono, abrogando in toto la precedente direttiva, quella vigente avrebbe cancellato entrambe le ipotesi. Una lettura che troverebbe conferma al punto 71 dove la sentenza Ue impone una “interpretazione restrittiva” dell’articolo 37, motivata dal fatto che la provenienza del richiedente da Paese considerato sicuro consente l’esame accelerato della sua domanda, più rapido ma con deroghe che riducono alcune garanzie.
La posizione del governo – Il nuovo decreto legge del governo, emanato per inserire in una norma primaria la lista dei Paesi sicuri dalla quale sono stati eliminati Camerun, Colombia e Nigeria. La scelta, ha spiegato il governo, rispetta la sentenza della Corte Ue. Il senso si comprende meglio nei ricorsi in Cassazione che impugnano le decisioni dei giudici di Roma. “Nella sentenza del 4 ottobre 2024 non vi è invece alcun riferimento alla possibilità degli Stati di precisare, nelle schede allegate ai decreti di designazione dei Paesi di origine sicura, informazioni aggiuntive relative ad alcune categorie di soggetti, rispetto alle quali sussistano criticità nel rispetto dei diritti, senza che questo implichi l’esistenza di eccezioni territoriali”, scrive l’avvocatura nei ricorsi del Viminale. La tesi è esattamente opposta. Siccome la sentenza nasce dall’interpello di un giudice della Repubblica Ceca sulla possibilità di escludere parti del territorio, e la Corte Ue non cita che queste, non c’è ragione di credere che il veto sulle eccezioni territoriali debba riguardare anche “la possibilità di eccezioni relative a categorie di soggetti”. Per questo i ricorsi considerano carenti le motivazioni dei giudici. Perché se la possibilità di escludere categorie di persone rimane, allora dovrò sostenere la presenza di “gravi motivi” che fanno del Paese d’origine un paese non sicuro per il singolo richiedente. Una lettura che intende legittimare la nuova lista dei Paesi sicuri, dove permangono quelli che presentano l’esclusione di alcune categorie di soggetti, Egitto e Bangladesh compresi. E per le stesse ragioni impugna le decisioni dei giudici chiedendo alla Cassazione di annullarle.
L’articolo 37 della direttiva 32/2013 – Prima di leggere alcuni passaggi della sentenza Ue, è necessario conoscere il testo dell’ormai noto articolo 37 sulla “Designazione nazionale dei paesi terzi quali paesi di origine sicuri”. Sono appena poche righe, per capire cosa dice e cosa no. “Gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta, a norma dell’allegato I, di designare a livello nazionale paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale”, dice il primo comma, al quale ne seguono altri tre sulla necessità di riesaminare periodicamente i Paesi sicuri, sulle fonti da consultare per la loro designazioni e sull’obbligo di notificare alla Commissione la famosa lista. Il testo vigente è il risultato della riforma dell’articolo 30 della precedente direttiva del 2005/85. A citarlo è la sentenza della Corte Ue al punto 73: “Tale articolo 30 prevedeva espressamente che gli Stati membri potessero designare come sicura anche una parte del territorio di un paese terzo”. Inoltre, al terzo comma, era prevista anche la possibilità “di designare un paese o parte di esso sicuri per un gruppo determinato di persone in detto paese”. Ma come dice il Viminale nei suoi ricorsi, la sentenza della Corte Ue non ne parla. I giudici europei aggiungono invece che la vigente direttiva 32 del 2013 “ha abrogato la direttiva 2005/85, il cui articolo 30, come risulta dalla tavola di concordanza di cui all’allegato III della direttiva 2013/32, è stato sostituito dall’articolo 37 di quest’ultima. Ebbene, in quest’ultimo articolo non compare più la facoltà di designare come sicuro una parte del territorio di un paese terzo“. Fin qui non dovrebbero esserci dubbi: per la Corte Ue la vigente direttiva non ammette di designare un Paese sicuro escludendo parti del territorio. Ma se per i giudici il divieto vale anche per l’esclusione di categorie di persone, per il governo non è così.
La proposta della Commissione Ue – Per precisare i punti precedenti della sentenza, la Corte cita una spiegazione che, nel 2009, la Commissione Ue aveva fornito al Consiglio dell’Unione europea in merito alla riforma che avrebbe portato alla nuova direttiva 32/2013, meglio nota come “direttiva procedure”. La Commissione “menziona espressamente la volontà di sopprimere la facoltà” di dichiarare sicuro un Paese ad eccezione di parti di territorio (punto 76). Nella stessa spiegazione, la Commissione proponeva inoltre di eliminare anche la possibilità, concessa agli Stati membri fino ad allora, “di applicare la nozione a un gruppo specifico in quel Paese o in parte di esso”. Il modo in cui il legislatore europeo ha lavorato sul testo della normativa è anch’esso citato nella sentenza della Corte di Giustizia. Sempre sull’esclusione di parti di territorio, la sentenza dice che “l’intenzione di sopprimere tale facoltà risulta dal testo stesso della modifica dell’articolo 30, paragrafo 1, della direttiva 2005/85 contenuta nella proposta della Commissione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio (pagina 57, ndr) in cui tale facoltà, nella maggior parte delle versioni linguistiche, è stata esplicitamente ed espressamente barrata e, nelle altre versioni, eliminata” (punto 75). Per capire quello che dice l’articolo 37 della vigente direttiva, ciò che consente e ciò che non consente più, la Corte invita a verificare le parti del vecchio articolo 30 che il nuovo articolo 37 ha cancellato. Ad essere barrato (foto sopra) non è solo il testo relativo alle parti di territorio, ma anche quello sulla possibilità “di designare un paese o parte di esso sicuri per un gruppo determinato di persone in detto paese”. Secondo la Corte, alle parole barrate corrisponde la volontà del legislatore europeo di dire ciò che la nuova direttiva del 2013 non avrebbe più consentito. Un punto che sembra dirimente. Ma solo per i giudici e non per il governo. Per saperlo con certezza dovremo aspettare il parere della Cassazione sui ricorsi del Viminale o, più probabilmente, il successivo rinvio alla Consulta o chissà, alla stessa Corte Ue.