Per completare il puzzle di un fisco “pazzo” il governo ha introdotto una nuova tassa, la cripto tassa. L’aliquota fiscale sul bitcoin, la moneta digitale più nota, dovrebbe passare dal 26% al 42%. Per il governo che voleva ridurre le tasse si tratta di un bel dietrofront. Il viceministro Leo è pronto a dare un dispiacere ai 3,6 milioni di risparmiatori (ma davvero sono così tanti?) che posseggono la fugace criptovaluta.
Questa aggressione alla punta di diamante del capitalismo finanziario tossico è abbastanza anomala. La destra in genere è favorevole a queste nuove forme di investimento. Per esempio, Trump si è schierato apertamente per il partito delle criptovalute e vuol farne la patria negli Usa, dopo che sono state bandite qualche anno fa dalla Cina. Come contropartita, i miliardari del capitalismo d’assalto stanno finanziando abbondantemente la sua campagna elettorale. La finanza oramai ha gettato la maschera e gioca apertamente le sue carte in politica. La destra nostrana invece si è mossa in direzione opposta, anche se la Lega di Salvini scalpita.
La nuova cripto tassa del viceministro Leo solleva molte domande. In primo luogo, quale sarà il gettito previsto? Le cripto tasse salveranno le pensioni, la sanità o la scuola? Aspettiamo i conteggi ma sicuramente il suo gettito sarà irrisorio. Molto rumore per nulla insomma. E questa è la tecnica tradizionale dei conservatori, sollevare un gran polverone ideologico con scarse ricadute reali. Ora il duo Giorgetti-Leo potrà dire di combattere la santa battaglia contro la finanza malata, di cui la nota moneta digitale è uno degli emblemi. Perché non c’è dubbio che il prudente risparmiatore italico che compra bitcoin abbia in mente solo o principalmente finalità speculative. Facili guadagni che dovrebbero derivare dall’acquisto di una moneta-non-moneta che non si capisce bene a cosa serva.
Detto questo, cioè della sostanziale inutilità del provvedimento per i conti pubblici, si potrebbe chiedere qualcosa di più alla finanza? Se sì, come fare? Le strade sono molte. Due appaiono percorribili senza grande fatica e immediatamente. La prima è quella di una flat tax sul riacquisto delle proprie azioni. Questa è diventata oramai una moda di tax planning delle banche, delle assicurazioni, delle grandi imprese per ridurre i dividendi. Quando i profitti sono eccessivi – ma eccessivi rispetto a cosa?, verrebbe da chiedersi – invece di avvantaggiare i consumatori riducendo i prezzi, l’impresa oligopolistica regala soldi agli azionisti. L’introduzione di una aliquota ad hoc, magari del 43% come quella sulle criptovalute, potrebbe mettere fine a questo indecente carnevale finanziario. Il gettito naturalmente sarebbe quasi nullo perché le imprese smetterebbero di acquistare azioni proprie, ma almeno non vedremo manager che guadagnano bonus milionari a sbafo dei consumatori, accontentando esageratamente gli azionisti.
La seconda strada molto più promettente è quella iniziata da Monti nel 2013 con l’introduzione della Tobin tax, dal nome del grande economista keynesiano James Tobin. Questa tassa si paga sull’acquisto delle azioni dal 2013. L’aliquota è molto bassa, dello 0,1 per cento (in alcuni casi dello 0,2). Quindi su mille euro di azioni e di altri prodotti finanziari acquistati si paga un euro. Non un grande sacrificio. Per dare un’idea della posta in gioco per il 2021, l’incasso è stato di 413 milioni, con un controvalore di azioni acquistate di parecchie decine di miliardi. Viene da chiedersi da dove provenga questo fiume in piena di ricchezza finanziaria in un’economia stagnate. Ma questo è in altro problema. La Tobin tax era nata per frenare le operazioni speculative sui titoli, comprare solo per rivendere lucrando sulla differenza di prezzo, ma può essere benissimo ripiegata sulla necessità che anche la finanza faccia la sua parte per sistemare i conti pubblici sempre più in affanno.
E lo può fare abbondantemente visti i tempi di vacche grasse passati, e anche futuri sembra. A gennaio 2020, il momento più nero in borsa, l’indice Fste Mib di Milano quotava 17.870 punti, oggi ne vale ben 34.726. Possiamo dire, senza trema di smentita, che la finanza ha vinto la sua battaglia contro la pandemia da Covid e la quasi terza guerra mondiale, eventi che invece avrebbero dovuto affossarla, con un incremento delle azioni del 94%, circa il 25% annuo. Impossibile credo pensare di poter fare meglio e il futuro per i profitti aziendali si prospetta egualmente roseo, con salari fermi e prezzi in costante ascesa. Se questo è il dato, un incremento della Tobin tax, anche temporaneo, potrebbe dare dei finanziamenti importanti oltre che essere un sigillo di equità. Per esempio, alzando l’aliquota dallo 0,2 per cento all’1 per cento, lo stato incasserebbe subito e comodamente più di due miliardi. Credo che quel 20% di italiani che possiede azioni non se ne accorgerebbe nemmeno.
La richiesta che la finanza, in un contesto difficile per l’economia reale, faccia la sua parte, aumentando per esempio la Tobin tax, sarebbe del tutto legittima. Invece il viceministro Leo si è inventato questa ridicola battaglia alla Don Chisciotte contro la criptovaluta più celebre per sviare evidentemente l’attenzione su mosse ben più importanti. Rimane il fatto, pur di qualche interesse, che la cripto tassa ha fatto perdere alla destra-destra la sua verginità fiscale. Citando Ennio Flaiano, una volta di più possiamo dire che la situazione finanziaria italiana è molto grave ma non seria, grazie ai fuochi artificiali annuali del duo Giorgetti-Leo.