di Michele Canalini
Dice il professor Alessandro Barbero, nell’intervista a La Stampa di qualche giorno fa, in occasione del suo prossimo pensionamento: “Oggi i ragazzi sono forse più fragili e timorosi rispetto al passato, ma l’intelligenza e la passione che dimostrano nella ricerca non sono diminuite”.
Mi pare un segnale davvero confortante e bello sullo stato della nostra istruzione universitaria, a cui però si affianca un’altra considerazione di tutt’altro tenore: “Mi sono accorto che il lavoro di docente è diventato inutilmente più gravoso per la pretesa di trasformare studiosi e ricercatori in capi ufficio. Questo ha reso stressante un lavoro bellissimo”. Non è così anche per la scuola?
Il problema di cui parla il professor Barbero non riguarda solo l’impossibilità per un insegnante di concentrarsi per gran parte del proprio tempo sulle attività di ricerca, sulla didattica in generale e pure sul proprio aggiornamento professionale, come sarebbe doveroso per qualsiasi formatore. Infatti, con l’aumento dei disbrighi amministrativi e pure manageriali per chi ottiene oggi una cattedra, viene naturalmente meno il tempo da dedicare ai ragazzi, che lo si voglia o no: perché, quando ogni giorno s’incorre nel rischio di non rispettare le scadenze burocratiche che si presentano di volta in volta, diventa difficile poi pensare di potersi relazionare con gli studenti al massimo della condizione psicofisica, offrendo il meglio di sé nella propria azione pedagogica.
D’altro canto, il fatto di demandare molti incarichi dalle segreterie direttamente al personale docente (piani individuali per gli studenti con disturbi dell’apprendimento, organizzazione di corsi extracurricolari, gestione di attività legate al Pnrr e tanto altro ancora) è una necessità di molti istituti, che si ritrovano a causa degli accorpamenti delle scuole a gestire plessi separati, migliaia di allievi iscritti in una stessa scuola, attività didattiche tra comuni ubicati in aree differenti, nonché il tutto nelle mani di un solo dirigente. A fronte di tutto ciò, il personale della segreteria è spesso sottodimensionato o non in grado, anche per le innumerevoli competenze richieste, di far fronte a tutte le esigenze di una scuola.
Giocoforza, dunque, è necessario coinvolgere nell’amministrazione e nella governance tutti i docenti, chi più chi meno. Chi più, perché ogni istituto fa giustamente affidamento sui docenti “fissi” in grado di poter offrire la propria collaborazione anche oltre il rispettivo anno scolastico di servizio; chi meno, perché non è proficuo per una scuola formare un docente a competenze non strettamente disciplinari nello svolgimento di mansioni amministrative, quando poi quel docente sarà assegnato a un altro istituto per l’anno venturo.
Dunque? La cosa migliore sarebbe quello di scorporare più istituti possibili, nel nome di una chiara logica geografica di distribuzione più sensata e sperando che le leggi di bilancio non debbano sempre richiedere sacrifici sempre e solo all’istruzione.
Purtroppo, però, l’unico dato certo resta sempre uno: chi si ferma a lungo in una qualsiasi scuola sappia che l’agognato incarico di “capufficio” prima o poi gli spetterà. Senza neanche essere interpellato, il fortunato di turno non saprà se dover considerare questa “promozione” come un titolo onorifico oppure come un inesorabile aggravio per chi aveva invece pensato di poter solo guidare i propri allievi ai segreti della sua disciplina, dopo tanti anni di studio e di sacrifici personali.