Parthenope è Jep Gambardella in bikini. Paolo Sorrentino torna nell’alveo spinto del proprio instancabile barocchismo, della sua ammaliante maniera, dopo la parentesi intimista e tanto ferocemente dolente di È stata la mano di Dio. E lo fa stampandoci in faccia centinaia di particolari, primi piani, mezzi busti maliziosi, erotico patinati, talvolta perfino brassiani, di Celeste Dalla Porta. È lei Parthenope, doppio evocativo dell’umano depresso sorrentiniano, protagonista eponima nata nel 1950 in una villa straordinariamente decadente di Posillipo, tra carrozze d’oro, terrazzi a picco sul mare, tavolate borghesi con colli di camicia a punta e stirati.
Parthenope cresce affascinante, defilata e silenziosa leggendo i romanzi di John Cheever (che poi incontra, ubriaco, inutilmente ampolloso e filosofeggiante tra decine di bottiglie vuote in una stanza d’albergo di Capri sempre vista mare), entrando e uscendo gocciolante dall’acqua, facendo ammattire e sbrodolare uomini attratti da lei, impetuosa e fragile studentessa di Antropologia negli anni settanta, nonnetta da pensione (Stefania Sandrelli) nel 2023 mentre Napoli è invasa dai caroselli dei tifosi dopo la vittoria dello scudetto della squadra di calcio.
Il mistero sfuggente della bellezza strafottente di Parthenope (meno stavolta di questa benedetta Napoli città), come la sua giocosa ricerca di una inafferrabile felicità, è il cuore continuamente in divenire, nel corso del tempo che fugge, decelera e poi sembra fermarsi, di un film dove la Dalla Porta è tanta, troppa, quantitativamente esagerata. Tanto che a un certo punto, complice la solita elefantiaca stasi del cinema sorrentiniano sull’ora e mezza di film, quel corpo, quei dettagli, quei sorrisi, ci ritrovano, dopo tante occhiate sgranate, definitivamente insensibili.
Parthenope incede tra insistiti ralenti con abiti svolazzanti e ritmi impallati da spot per l’alta moda, fastose e insistite carrellate spesso nel vuoto ammirativo di un nonnulla, singole inquadrature con almeno tre attori dove si provano le diverse distanze per la messa a fuoco dei profili. Sorrentino procede ancora, e sempre, per addizioni ridondanti e grottesche (la Sofia Loren/Greta Cool diva cafona e avida che ama il sesso anale; la sfigurata attrice Flora Malva; l’untuoso vescovo dalla mani eroticamente furtive), lasciando che la narrazione si squagli deliberatamente in una porosa non linearità della trama, cercando di far emergere una latente suggestiva artificiosità carica di aforismi e frasi ad effetto (“alla fine della vita resta solo l’ironia”; “quando sai tutto muori presto e solo”; “io non so niente ma mi piace tutto”).
Anzi, spesso, i personaggi del cinema di Sorrentino, liberi di scorrazzare in ampi e magniloquenti scenografie d’interni e spazi ulteriormente aperti, sembrano come chiusi autisticamente su se stessi a rimuginare le proprie massime i propri tratti archetipici, le proprie snobistiche idiosincrasie, invece di cercare o trovare una sintesi d’insieme, un’organicità realistica. Ognun per sé e Sorrentino per tutti, insomma. Parthenope trasmette il gusto di un feticismo chic, fine a se stesso, di un’ennesima performance che inzuppa la propria creatività nei meandri dell’arte contemporanea per un concetto estetico di bellezza disgustosa (il figlio mostruoso del docente interpretato da Silvio Orlando, il ragno multi zampe anticolera) più kitsch che genialoide.
Un ultimo appunto: in mezzo a cotanto stile, a un così millimetrico controllo della messa in scena e successiva ricomposizione del film in post c’è una cosa che a Sorrentino non riesce proprio benissimo: dirigere le star di Hollywood. Di mostri sacri come Michael Caine e Harvey Keitel in Youth nessuno ricorda più un fotogramma, di Sean Penn dismessa la parruccona di This must be the place rimane solo qualche traccia dalle locandine. Mentre di Gary Oldman che fa un dandy gaissimo Cheever rimarrà solo la necessità della sua indispensabile presenza. Distribuisce in sala la neonata Piperfilm. Dal 24 ottobre in sala.