Fabio Tosi, 34 anni e Lorenzo Cubello, 37 anni. Sono questi i nomi delle ultime due vittime della strage quotidiana di cui sono vittime lavoratori e lavoratrici.

Mentre scrivo, altri undici operai sono ricoverati. Tutti vittime dell’esplosione alla Toyota Material Handling di Borgo Panigale a Bologna. Uno di loro è in condizioni gravissime, sei sono in codice 2 e quattro in codice 1.

Il 30 agosto 2023 sono 5 gli operai travolti sui binari da un treno presso la stazione di Brandizzo (Torino).

Il 16 febbraio 2024 la strage sul cantiere Esselunga a Firenze: 5 operai di ditte in appalto perdono la vita.

Il 9 aprile 2024 è la volta di 7 lavoratori della Centrale idroelettrica di Bargi di Enel Green Power, vicino Bologna.

Il 6 maggio a Palermo, 5 lavoratori della Quadrifoglio srl, in appalto ad Amap, l’azienda municipale acquedotti, muoiono intossicati dalle esalazioni di idrogeno solforato.

E ora, 23 ottobre 2024, Borgo Panigale.

L’ultimo anno è stato costellato di stragi di lavoratori. La verità, però, è ancora più amara: assistiamo a uno stillicidio quotidiano in cui non passa giorno, domeniche comprese, estate o inverno che sia, che splenda il sole o batta la pioggia, che qualche lavoratore non ci rimetta la pelle. In media 3 lavoratori morti al giorno. Anche di più secondo Carlo Soricelli, animatore dell’Osservatorio di Bologna morti sul lavoro. Dal 2008, infatti, Soricelli monitora questa guerra contro i lavoratori e per il 2023 ha monitorato ben 1467 morti sul lavoro. Trecentoventi in più di quelli riportati dall’Inail. Una spiegazione c’è: Inail registra solo i “suoi” morti, quelli cioè assicurati dall’ente stesso. Mancano così, secondo quanto riportato da Soricelli, “i 167 agricoltori morti schiacciati dal trattore”, quelli coperti da “un’assicurazione diversa” da Inail e i “morti in nero”. Si pensi, ad esempio, a Satnam Singh, il bracciante indiano che il suo padrone abbandonò con un braccio tranciato fuori casa anziché trasportarlo in ospedale.

Il piano degli omicidi sul lavoro, purtroppo, è solo la manifestazione più barbara del funzionamento del sistema. Come fosse la punta di un iceberg. E, proprio come un iceberg, non viene a galla. Non ne vedi che la punta. In realtà, però, è perché non vuoi vedere oltre. E a volte nemmeno quello.

Lunedì 21 ottobre ho partecipato all’assemblea nazionale dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (Rls) dell’Unione Sindacale di Base. A parte me, Nunzia Catalfo (M5S) e Franco Mari (AVS), non erano presenti rappresentanti di organizzazioni politiche. Indicativo di una classe politica che corre quando a convocarli sono gli industriali e che si dà malata quando a chiamare sono i lavoratori. Eppure se vuoi vedere l’iceberg della guerra contro i lavoratori non c’è luogo più adatto di quello.

L’iceberg è fatto di un’impresa del vicentino che si rifiuta di chiamare il 118 quando un dipendente si allontana dalla postazione e si accascia per un problema cardiaco. O di una famosa azienda di scooter in cui c’è bisogno di un corteo interno per ottenere che a un lavoratore a tempo determinato con una mano praticamente tranciata da un macchinario venga concesso ciò che gli spetta in base alla normativa sugli infortuni sul lavoro. O di esperienze di malattie professionali e burnout dovuti anche al mancato turn-over (attenzione che con la manovra di bilancio 2024 ritorna nella Pubblica Amministrazione!) e al conseguente aumento dei carichi di lavoro. O, ancora, delle storie di quelle operaie che dopo dieci anni di lavoro con il sistema ERGO-UAS (metodo per determinare i tempi necessari per eseguire il lavoro in fabbrica e conseguentemente i ritmi) hanno difficoltà anche ad alzarsi da una sedia.

Ascoltare queste e migliaia di altre storie – a partire da quelle di operai e familiari di lavoratori colpiti dal killer chiamato amianto – permette di capire l’ampiezza e la profondità della piaga. E di andare dritti ai problemi. Sempre che si voglia trasformare la realtà dei posti di lavoro nell’interesse della maggioranza, cioè di lavoratori e lavoratrici. Togliendo dal tavolo alcuni miti. A partire da quello secondo cui l’assenza di sicurezza sarebbe dovuta a un’assenza di cultura. Falso, come riportato da diversi Rls. È la logica del profitto che è inconciliabile con la sicurezza che, per le imprese, è un costo. Da abbattere quanto più possibile. Per i lavoratori, al contrario, è vita. Da tutelare ogni giorno e da portare a casa.

Se si vuole tutelare la sicurezza di lavoratori e lavoratrici bisogna fare in modo che abbiano gli strumenti per difendersi. I contratti precari, ad esempio, indeboliscono o perfino annullano le possibilità di contrattazione dei dipendenti. Combattere la precarietà significa contemporaneamente combattere per più sicurezza.

Bisogna rafforzare le prerogative degli Rls e dei delegati dei lavoratori. Bisogna assicurar loro la non punibilità e l’assenza di responsabilità economica sempre che stiano espletando le loro funzioni. Solo così si può rafforzare il ruolo di controllo operaio che essi svolgono quotidianamente e che è la miglior tutela possibile della sicurezza dei colleghi.

Infine, col ddl 1660 il Governo Meloni si accinge a introdurre il nuovo reato di lesioni nei confronti di membri delle forze dell’ordine. E usa il pugno duro: le pene previste sono pesantissime, da 2 a 5 anni di carcere per le lesioni “lievi”; da 4 a 8 anni per le “gravi”; fino a 16 anni per le “gravissime”. Se però le lesioni “gravi” e “gravissime” sono cagionate da un imprenditore a un proprio dipendente, il governo usa un guanto di velluto. L’ultradestra, infatti, continua a rifiutarsi di introdurre il reato di “omicidio e lesioni gravi e gravissime sul lavoro” con pene dai 5 ai 10 anni di reclusione.

È questa l’unica guerra che dovremmo combattere e dinanzi a cui, invece, i nostri governi – non solo il governo Meloni – fuggono a gambe levate: la guerra contro gli omicidi e le lesioni sul lavoro.

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Lorenzo Cubello e Fabio Tosi, chi erano i due operai morti alla Toyota di Bologna

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