Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva annunciato che il taglio sarebbe stato confermato. Invece, la manovra inviata ieri alla Camera non prevede anche per il 2025 la riduzione del canone Rai da 90 a 70 euro. Senza interventi durante il passaggio parlamentare, l’anno prossimo dunque si torna al passato. Con l’addebito della cifra nella bolletta energetica, come già previsto. In compenso anche per la tv pubblica arrivano tagli lineari alle spese: le “misure di contenimento dei costi di personale e per consulenze” richiedono che nel 2025 non si superi il costo sostenuto nel 2023 e per il 2026 e 2027 ci sia una riduzione pari ad almeno il 3 e il 4% del costo sostenuto nel triennio 2023-2025. Richieste che non tengono conto dell’inflazione. Il tutto senza che si sblocchi il tetto pubblicitario.

Una stretta che impatterà sui costi per i programmi. Nel mirino ci sono le uscite per trasmissioni che poi finiscono nell’occhio del ciclone per gli ascolti bassi. Il Consiglio di amministrazione, che si è riunito per discutere della semestrale di bilancio, ha espresso “apprensione per i provvedimenti riguardanti il futuro dell’Azienda contenuti nel disegno di Legge che – sia pure nell’ottica di un doveroso contenimento dei costi – rischierebbero di limitare l’autonomia del nostro Servizio Pubblico e di condizionarne le scelte e le attività con possibili impatti sull’occupazione, nonché sull’indotto”.

Anche l’esecutivo del sindacato Usigrai ha contestato la decisione del governo: “Continua a mettere le mani sulla Rai. Questa volta nei conti, con un preoccupante salto di qualità che assomiglia a un commissariamento. Prima taglia il canone spostando una quota in fiscalità generale, poi interviene con una legge di bilancio per decidere le politiche del personale. Mentre l’Europa approva il Media Freedom Act – che impone ai governi autonomia di governance e di risorse – l’Italia trasforma il Servizio Pubblico in Tv di Stato al guinzaglio dell’esecutivo”.

Per l’Usigrai “è urgente una riforma che garantisca alla Rai quella indipendenza di gestione che consenta di non far lievitare i costi con continui avvicendamenti di vertici e direzioni a ogni elezione politica o amministrativa. In tre anni abbiamo avuto tre amministratori delegati, tre ricambi di dirigenti e direttori di testata dovuti esclusivamente che agli equilibri dei partiti invece che agli equilibri di bilancio. Nessuna politica industriale o di prodotto, se non il posizionamento di conduttori, programmi e direttori, graditi al governo di turno. Ora i tagli, come era prevedibile, si abbattono sui dipendenti, già mortificati da politiche del personale che hanno regolarmente escluso ogni forma di valorizzazione del patrimonio umano e professionale dell’azienda”.

Anche il sindacato di destra Unirai, già in protesta contro il precario, si dice pronto a “tutte le forme di mobilitazione per scongiurare quello che sarebbe il colpo di grazia per un’azienda con 12 mila dipendenti che sta trovando, tra mille difficoltà, la strada del risanamento”.

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