Cosa sono e che cosa possono, o non possono, diventare i paesi Brics? Mentre i premier degli stati membri si riuniscono a Kazan, in Russia, è questa la domanda cruciale che si pone gran parte degli osservatori. Alcuni giorni fa Vladimir Putin ha parlato dell’inizio di un “percorso inarrestabile verso un nuovo ordine mondiale”. Eppure sono tanti i dubbi sul fatto che un gruppo di paesi con interessi sotto molto aspetti divergenti, possa davvero ergersi a contropotere nei confronti del blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti.

Di certo, negli ultimi tempi, i Brics hanno mostrato un grande dinamismo, alimentato soprattutto dalla Cina e dalla Russia. Ai 5 membri originari (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) se ne sono aggiunti altri quattro (Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti) ed una quarantina di paesi hanno espresso interesse per un futuro ingresso. Tra questi ci sono anche pesi massimi della demografia come Indonesia e Malesia. E Stati ricchi di petrolio come Arabia Saudita, Venezuela ed Algeria.

Quando il gruppo nacque, 15 anni fa, molta parte degli analisti occidentali ne pronosticò un rapido fallimento (spesso questo è un buon viatico per il successo). Il gruppo c’è ancora e da alleanza economico-commerciale accenna ora a dotarsi di un ruolo anche politico. Nei paesi Brics abita quasi la metà della popolazione globale, contro il 10% dei paesi G7. Rappresentano circa il 35% del Pil globale (più del 30% del G7) e, forse soprattutto, controllano già il 42% della produzione mondiale di petrolio. Oltre a detenere grandi quote nei mercati globali dell’alluminio, dell’acciaio, del rame e del litio.

Dai Brics proviene il 40% del grano, dello zucchero e del caffè consumati nel mondo, un terzo del mais. La ricchezza pro capite in Occidente rimane (molto) superiore, qui disponiamo delle tecnologie di difesa più avanzate e gli Stati Uniti sono ancora leader globali nelle tecnologie digitali. Ma mentre i paesi G7 diventano più piccoli (come popolazione e, in una certa misura, come economie), i Brics stanno diventando più grandi e il divario tecnologico si sta riducendo.

“L’ascesa di potenze economiche come Cina, India e i Brics nel loro complesso, il cui contributo al Pil globale supera ormai quello del G7, indica un cambiamento irreversibile. Questo processo storico si sta muovendo in una direzione diversa, e l’Occidente dovrà prenderne atto. Nei Brics non ci sono né leader né seguaci, né alcun apparato burocratico come quello che vediamo a Bruxelles”, ha detto il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.

Tuttavia è innegabile che tra i paesi membri esistano differenze di vedute notevoli. Da un lato ci sono Cina e, appunto, Russia che vogliono fare dei Brics uno strumento per sfidare il dominio occidentale, dall’altro stanno India e Brasile che puntano ad avere più peso nel sistema esistente ma non a sovvertirlo. SI ricorsi che l’India è anche parte di Quad, la quadrilaterale composta anche da Usa, Giappone ed Australia e che è ha l’obiettivo di monitorare e contenere l’espansione cinese.

“I Brics non sono un’organizzazione, non ne hanno le strutture. Io li definisco un allineamento diplomatico, un gruppo di paesi che adottano un modello di cooperazione pragmatica“, dice a IlFatto.it Giovanni Barbieri collaboratore di ricerca del Cranec della Cattolica di Milano e membro del gruppo di lavoro sui Brics dell’Eurispes. “Il nucleo originario nasce nel 2009 come risposta alla crisi, per chiedere una riforma della governance finanziaria globale. Ricordiamoci che tradizionalmente la guida del Fondo monetario è affidata ad un europeo, quella della Banca mondiale ad un nord-americano”. Gli altri sono tagliati fuori, continua Barbieri, che aggiunge “questa della riforma della governance finanziaria è l’unica cosa che al momento accomuna davvero tutti i membri originari, che per altri aspetti hanno interessi divergenti”.

La riforma dell’architettura finanziaria internazionale “è urgente”, ha ribadito il presidente cinese Xi Jinping, da Kazan, sollecitando “l’approfondimento della cooperazione finanziaria ed economica” e la “promozione della connettività delle infrastrutture finanziarie”.

“È importante notare come in questa fase geopolitica complessa, i Brics si facciano interpreti e portavoce di una richiesta di cambiamento che proviene da molti paesi del Sud Globale. Non
contro l’Occidente ma come esigenza di un maggiore equilibrio e rappresentatività tra i paesi del mondo, preservando strutture che già esistono, come le Nazioni Unite“, dice Giulia Formici,
ricercatrice dell’Università di Parma e membro del Brics Parma Research Group.

“È forzato guardare ai Brics sia come ad una sorta di contropotere, sia come ad una struttura irrilevante. In entrambi i casi si scontano i limiti di una visione occidentale che non coglie appieno le caratteristiche di questo gruppo di paesi”, aggiunge la ricercatrice. “In passato hanno superato momenti di forte frizione tra i membri e la cooperazione è riuscita ad evolversi ed ampliarsi grazie alla flessibilità e alla natura destrutturazione dell’alleanza. Anche il caso dell’Ucraina, potenzialmente divisivo, ne è un esempio”.

Certamente la guerra in Ucraina ha spinto Mosca a dare più peso all’alleanza. Ma, come osserva ancora Barbieri, “sono molto abili a non sbilanciarsi. Sull’Ucraina hanno votato la risoluzione di condanna dell’invasione in quanto violazione del diritto internazionale ma poi si sono astenuti su altre risoluzioni, rimarcando come l’azione di Mosca sia stata motivata anche dai comportamenti delle alleanze occidentali”. Quanto alla questione israelo-palestinese va ricordato come la Cina fosse riuscita ad agevolare il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Iran ed Arabia Saudita che ora si trovano, se non contrapposti come sciiti e sunniti, quantomeno su due piani diversi nell’approccio da tenere in questa crisi.

In comune tra i paesi Brics, molti ex colonie, sembra esserci comunque la volontà di non essere parte dell’Occidente e di non doverne sottostare ai diktat. In questo la guerra in Ucraina e il frequente uso di sanzioni da parte degli Usa hanno spinto i paesi bersaglio, o potenzialmente tali, ad avvicinarsi tra loro. Basti guardare cosa sta accadendo tra Russia e Iran, storicamente tutt’altro che affini ma che si sono molto riavvicinati.

“Credo che il modo in cui si evolveranno i Brics dipenda più da noi che da loro. I paesi occidentali accetteranno di democratizzare e ‘aprire’ la governance mondiale oppure sceglieranno di difendere lo status quo magari armandosi fino ai denti?” si chiede Barbieri. Ad oggi il primo caso non è nell’aria e, quindi, è verosimile che la coesione tra i paesi Brics si rafforzi in chiave difensiva nel quadro dell’inasprimento delle relazioni con il blocco occidentale (il crescente ricorso incrociato a dazi e sanzioni va in questa direzione). “E l’incoerenza di fondo con cui in molti casi i paesi industrializzati hanno ‘stiracchiato’ il diritto internazionale e i suoi principi non ha aiutato”, aggiunge.

Il convitato di pietra di questa discussione è il dollaro, la valuta di riferimento per gli scambi globali ma anche uno degli strumenti con cui gli Usa esercitano il loro predominio globale. La moneta statunitense è utilizzata in circa la metà degli scambi commerciali mondiali e non mostra segni di declino. Per la forza economica e militare che ha alle sue spalle ma anche per l’assenza di un’alternativa credibile. Pechino è convinta che gli Usa utilizzino dollaro e le varie istituzioni che guidano come armi e vorrebbe dotarsi di strumenti analoghi, in attesa che lo yuan guadagni peso (e credibilità).

Uno dei traguardi più significativi raggiunti dai Brics è stata la creazione della New Development Bank, operativa dal 2015. È un’entità finanziaria alternativa a Fmi e Banca Mondiale che sinora ha finanziato investimenti in infrastrutture dei paesi in via di sviluppo per 33 miliardi di dollari. I paesi hanno inoltre concordato di creare una riserva di valute estere per un controvalore di 100 miliardi di dollari, a cui si può attingere nelle fasi di emergenza finanziaria. Alcuni paesi membri, infine, hanno dato vita a reti di pagamenti alternative a Swift, il network globale a matrice statunitense. Questo ha, tra l’altro, permesso tra l’altro a Mosca di attenuare l’impatto delle sanzioni occidentali. Tuttavia la NDB non ha la stessa forze del Fmi e, al momento, nelle stesse dichiarazioni dei leader Brics non esiste l’intento programmatico di renderla una reale alternativa ad esso.

Le misure contro Iran prima e Russia poi, oltre al congelamento degli asset russi depositati in Europa, hanno messo sul chi vive molti paesi. Dalla Cina all’Arabia sono tante le nazioni che temono di poter andare incontro alle stesse misure qualora dovessero fare qualcosa di sgradito agli Stati Uniti e ai loro obbedienti alleati. La ricerca di alternative, di altre valute, è diventata prioritaria. L’India ha iniziato a comprare il petrolio russo pagandolo non in dollari. Cina e Arabia Saudita discutono della possibilità di regolare i loro scambi in yuan.

Il dominio del dollaro, ripetiamolo, è saldo. Ma ci sono tanti fattori che ne rosicchiano le prerogative e le posizioni. Gli sforzi dei Brics sono uno di questi. È interessante quello che ha di recente scritto sul Financial Times l’economista ed ex amministratore delegato di Pimco, Mohamed A. El-Erian, in merito ai recenti record dell’oro. La crescita delle quotazioni è stata favorita anche dagli acquisti da parte delle banche centrali poiché, scrive El Erian, “c’è anche interesse nell’esplorare possibili alternative al sistema di pagamenti basato sul dollaro che è stato al centro dell’architettura internazionale per circa 80 anni. Se ci si chiede perché ciò sta accadendo, solitamente si otterrà una risposta che menziona una generale perdita di fiducia nella gestione dell’ordine globale da parte degli Stati Uniti e due sviluppi specifici. Sentirete parlare dell’uso che l’America fa delle tariffe commerciali e delle sanzioni sugli investimenti come strumenti, insieme al suo ridotto interesse nel sistema multilaterale cooperativo basato su regole, nella cui progettazione ha avuto un ruolo fondamentale 80 anni fa”.

Poi, continua l’economista, “c’è l’aspetto legato al conflitto in Medio Oriente, dove gli Usa sono visti da molti come un sostenitore incoerente sia dei diritti umani fondamentali che dell’applicazione del diritto internazionale. Questa percezione è stata amplificata dal modo in cui Washington ha protetto il suo principale alleato da una risposta ad azioni ampiamente condannate nella comunità internazionale”. La fiducia è alla base della forza di qualsiasi moneta, perderla può essere molto pericoloso.

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