di Nadia D’Agaro
E’ di nuovo prorogata la detenzione di Paul Watson in Groenlandia, fino al 13 novembre. Pare che i giudici non riescano a decidere cosa fare di lui, attivista per la fauna marina, e forse, almeno in Francia, sta diventando una “patata bollente” dato che addirittura il presidente Macron è interpellato per chiedere la concessione della cittadinanza francese e il conseguente asilo politico, e personaggi famosi fra animalisti/attori e ambientalisti (Brigitte Bardot, Pierce Brosnan etc.) chiedono la sua liberazione e la non estradizione in Giappone, estradizione che per un uomo anziano significherebbe la morte in prigione.
Ma ora non voglio ripercorrere la vicenda di Paul Watson di cui potete trovare in rete ampia documentazione, ma fare alcune considerazioni sul fascino che gli animali esercitano su di noi alla luce di alcune letture non ortodosse (cioè romanzi, non saggi) e di alcuni ricordi.
Quanto ci appartengono gli animali? Quanto possiamo dire di conoscerli veramente, anche quelli domestici? Andavo a fare volontariato in un piccolo rifugio, e c’era un cane di nome Milo, simile a un labrador per corporatura e anche per forma del muso. Richiedeva l’attenzione dei volontari mordicchiando i vestiti, dopodiché, ricevute le attenzioni richieste, attendeva alle solite occupazioni. Un cane pacifico, ben socializzato, sia con gli altri cani, sia con gli umani. Arriva il giorno che Milo viene scelto e portato a casa dai suoi nuovi proprietari. La notte stessa, se ne va.
Cominciano le ricerche. Finalmente, dopo una trentina di giorni, viene avvistato in un luogo abbandonato, in compagnia di altri due cani. Non si fa però avvicinare. La sua domesticità è finita. Quindi, i volontari si attrezzano con gabbie/trappole, le stesse, ma più piccole, che catturano gli orsi in Trentino. E una felice mattina, dopo un mese circa di vagabondaggio, avviene la cattura. Di tutti e tre i cani. Una retata. Riportato al rifugio, vi rientra e torna alla sua vita precedente. Quanto è facile dunque per la specie “cane” passare dal domestico al selvatico? O forse è facile per tutte le specie?
No, ci dice Glenway Wescott nel romanzo Il falco pellegrino. Una storia d’amore: “L’individu seul est esclave; l’espèce est libre”. Mai nessun falco si è riprodotto in cattività. Mai nessun falco destinato alla falconeria è nato in cattività, erano liberi, sono stati catturati. “Solo l’individuo è schiavo, la specie è libera”, frase che appartiene al naturalista Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, viene citata nel romanzo dall’aristocratica proprietaria del palco pellegrino, donna che tanto ama i falchi, quanto disprezza i cani. I falchi sempre uguali nel tempo sono rimasti, mai veramente asserviti: i cani sono diventati di tutte le forme, di tutti i caratteri. La vogliamo dire la parolaccia? Sono delle prostitute.
Questa donna aristocratica che si diletta di falconeria, è accompagnata dal marito, e stanno facendo visita a una ereditiera americana in Francia. Tutto il mondo gira intorno a questa vicenda, perché la coppia è per metà inglese e per metà irlandese (lei). Nella triangolazione, donna, uomo, falco, l’uomo vorrebbe uccidere il falco (una specie di inquietante presenza di cui ha paura, un animale che non sorride mai, a differenza dei cani), la donna vuole salvare l’uomo dall’etilismo e cerca di tenerlo impegnato, il falco, ogni tanto, se non ho capito male per la rabbia o la noia o forse semplicemente perché perde l’equilibrio, si “getta” dal braccio di lei a cui è incatenato, svolazza in modo tutt’altro che elegante, e pende a testa in giù come una figura dei Tarocchi. Bisogna alzare il braccio, e lentamente, il falco si riprende e torna in posizione.
In questi mesi, dal 21 luglio data dell’arresto di Paul Watson in Groenlandia, ad ora, ho avuto modo di conoscere meglio le balene e sono rimasta affascinata dai video con i suoni: le balene cantano. Ovviamente, nessuno addomestica le balenottere. Ma i delfini sì, eccome. L’amore confina con la necessità di rendere schiavi?