F1 & MotoGp

Chi è Greg Maffei, il boss della Formula 1 con la sindrome di onnipotenza: così è riuscito a inimicarsi l’Antitrust Usa, l’Ue e perfino Trump

MOU è una malattia fittizia inventata da Tom Rubython, fondatore e direttore della rivista Business F1. L’acronimo sta per Master of the Universe, ma in italiano è più efficace tradurre MOU come Sindrome di Onnipotenza. Secondo Rubython, il disturbo colpisce solo le persone di grande successo, portandole gradualmente a un tale distacco da qualsiasi concetto di senso della misura da arrivare a porre le basi della loro caduta. Una delle ultime vittime sembra essere Greg Maffei, il boss della Formula 1 in quanto CEO e Presidente di Liberty Media, la società che dal 2017 controlla il Circus.

Curriculum stellare che include ruoli di vertice in colossi quali Microsoft, Oracle, Electronic Arts e Starbucks, Maffei è un uomo da oltre 500 milioni di dollari guadagnati in carriera. Un uomo business first: la gestione della F1 sotto Liberty Media è l’esatta messa in pratica di questo motto. Prima i soldi, poi tutto il resto, che si tratti di sport, rispetto dei diritti umani o anche delle semplici tradizioni del mondo dei motori. Solo che in questi ultimi mesi l’asticella è stata posizionata un po’ troppo in alto, arrivando a infastidire alcuni pesi massimi che nessuno vorrebbe avere contro: l’Antitrust americano, l’Unione Europea e Donald Trump. “Dopo una carriera costellata di successi”, scrive Rubython, “Maffei è destinato alla distruzione dopo aver contratto la MOU, salvo non riesca a trovare un rimedio in tempo”.

La grana più grossa per Liberty Media riguarda l’indagine dell’Antitrust americano sul rifiuto all’ammissione del team Andretti, con motori General Motors, in Formula 1. Un no all’ingresso di un’undicesima scuderia, arrivato in contrapposizione al parere favorevole espresso dalla FIA e sulla base di motivazioni tecniche discutibili e pretestuose, che ha provocato un’azione bipartisan del Congresso americano, il quale ha chiamato in causa la divisione antitrust del Dipartimento di Giustizia e la Commissione Federale del Commercio per l’apertura di un’indagine sulla decisione. “Il rifiuto”, si legge nella lettera del Congresso, “sembra essere motivato dall’attuale schieramento di scuderie europee, molte delle quali affiliate a case automobilistiche straniere che competono direttamente con case automobilistiche americane come General Motors. È ingiusto e sbagliato tentare di bloccare le aziende americane dall’entrare in Formula 1, cosa che potrebbe violare anche le leggi antitrust americane”.

Il grosso problema per Liberty Media è che l’Antitrust, in virtù dello Sherman Act, la colonna portante della normativa americana in materia, può arrivare a frazionare o addirittura a sciogliere le società ritenute colpevoli di condotta monopolistica. Nel 2001 Microsoft patteggiò per evitare la chiusura, mentre in tempi più recenti Google è stata ritenuta colpevole di condotta illegale nel mantenimento di un monopolio nell’ambito dei motori di ricerca (con sanzioni non ancora rese note). Secondo Business F1 l’Anitrust sarebbe in possesso di chat WhatsApp in cui Formula One Group (di cui è CEO Stefano Domenicali e che appartiene al “pacchetto” Liberty Media) e i team concertano una strategia per tagliare fuori Andretti e continuare a dividere i proventi per dieci anziché per undici.

Il carico da novanta, in pieno delirio da MOU, lo ha messo però proprio Maffei lo scorso maggio a Miami quando, nel paddock di fronte a numerose persone (Domenicali incluso), disse a Mario Andretti che avrebbe fatto tutto il possibile per non farlo entrare mai in Formula 1. Un’ostilità che, al netto delle reali motivazioni, conosciute solo dal diretto interessato, non solo collide contro il senso dello sport e della competizione, mai comunque stati in cima ai pensieri del businessman americano; ma va a incidere sulla politica espansiva, quindi anche economica, della F1, basti pensare all’esplosione di Franco Colapinto e a quanto il pilota Williams abbia mossa in termini di popolarità, e di sponsor, in Argentina. Un Colapinto che molto probabilmente non avrà un sedile il prossimo anno perché i posti disponibili sono quasi esauriti. Un team in più avrebbe fatto la differenza, soprattutto nell’ottica di un mercato in espansione come quello dell’intero continente americano.

Uno dei nemici di Maffei è lo spagnolo Alejandro Agag, capo della Formula E, che non ha gradito la parziale acquisizione della MotoGp da parte di Liberty Media lo scorso aprile, rivolgendosi all’Unione Europea per la concentrazione di potere in sede della futura contrattazione dei diritti televisivi che potrebbe causare una violazione delle leggi sulla libera concorrenza. A dare man forte ad Agag è arrivato il deputato belga Pascal Arimont, che ha sollecitato un intervento dell’Antitrust europeo. Ovviamente si tratta di un mondo dove nessuno agisce solo per un senso di giustizia. Da pochi mesi la Formula E è entrata nell’orbita di Liberty Media tramite Liberty Global. Pur essendo entità completamente separate, la famiglia è la stessa, quindi faide e colpi bassi regnano sovrani. Ad esempio Agag voleva l’intervento di Liberty Media per salvare il finale di stagione dell’Extreme E, il campionato di SUV elettrici, ma gli è stato risposto picche. Lo scontro tra i contendenti è finalizzato all’ottenere la maggior considerazione possibile agli occhi del milionario John C. Malone, il principale azionista di Liberty Media.

Malone è una figura chiave per il destino di Maffei, anche per via di Donald Trump. Maffei aveva contribuito con una donazione di 250mila dollari al comitato per l’insediamento di Trump da nuovo presidente degli Stati Uniti nel gennaio 2017. Ma lo scorso maggio al GP di Miami, organizzato direttamente da Liberty Media, ha negato a Trump sia l’accredito in pit-lane, sia il permesso per una raccolta fondi nel Paddock Club. Una mossa sciagurata agli occhi di Malone, che punta molto sulla vittoria dei repubblicani per calmare le acque con l’Antitrust. Un Malone già indispettito per l’esborso eccessivo per la Moto Gp, pagato più del doppio del secondo offerente (4.2 miliardi di euro contro 2) per uno sport che fattura a fatica 500 milioni di euro. Tempi durissimi insomma per un uomo d’affari (anzi, due, visto che anche a Domenicali per ora non è stato rinnovato il contratto) e una compagnia che sembrano aver raggiunto il punto di non ritorno.