Barack Obama è tra i pochi ad aver toccato uno dei punti cruciali di questa campagna elettorale in America. “Fate finta che Kamala Harris sia Ken Harris – se fosse un uomo, un uomo bianco di mezza età, avreste un’opinione diversa di Kamala?” Bisognerebbe chiamarla misoginia, se non sessismo. O razzismo. Cioè la percezione in stile cane di Pavlov per milioni di elettori americani abituati a vedere un uomo bianco alla Casa Bianca. I luoghi comuni abbondano, tipo “sarebbe difficile affidare a una donna i codici dei missili nucleari” perché “le donne sono esseri emotivi”.
Il fatto è che saranno proprio le donne a decidere la tornata elettorale del 5 novembre. La sconfitta di Hillary Clinton nel 2016 non prelude bene, eppure se si dovesse dar retta ai sondaggi, stavolta potrebbe andare diversamente. L’ultima indagine condotta dal New York Times e dal Siena College mostra che il divario tra i sessi si è ampliato, le donne mantengono il loro sostegno ai democratici, che dura da anni, e gli uomini si spostano verso Trump proprio per il disagio maschile di trovarsi con una presidente donna. Harris ha un vantaggio di 16 punti sulle probabili elettrici – centrale è la questione dell’aborto, il cui diritto è stato ribaltato due anni fa da una sentenza della Corte Suprema a maggioranza repubblicana – mentre Trump è in testa di 11 punti sui probabili elettori maschi. Gran parte del divario di genere è determinato dagli elettori più giovani: il sondaggio mostra che il 69% delle donne di età compresa tra i 18 e i 29 anni è a favore di Kamala, rispetto al 45% dei maschi della stessa fascia di età. Differenza che supera di gran lunga quella degli elettori della vecchia generazione. Quelli cioè fissati con l’emotività di una donna presidente in caso di guerra nucleare contro la Russia di Putin.
L’esito del voto, dunque, è in mano alle donne giovani. Donne mille volte denigrate da Trump, candidato con una condanna per abusi sessuali (e altre lo accusano). Donne che devono fronteggiare lo scoperto sessismo dell’ex presidente e dell’intero partito repubblicano. Harris punta su questa nuova coalizione di elettrici femminili infuriate e in cerca di riscatto. Per cui i democratici scommettono di guadagnare voti tra le donne bianche, nere e ispaniche, in modo trasversale per istruzione, classe sociale e persino affiliazione di partito, puntando anche a persuadere elettrici di orientamento conservatore.
La triste verità è che per la terza elezione consecutiva, decine di milioni di americani voteranno per un candidato che vanta un lunghissimo elenco di scandali (personali, politici e criminali) senza precedenti nella storia recente e passata dell’America. Nonostante ciò Donald Trump ha sfidato, e continua a sfidare, la gravità politica. È sopravvissuto all’insostenibile, ha normalizzato l’anormale e ha stracciato ogni linea rossa della decenza e del buon senso. Ma potrebbe vincere, di nuovo. A quest’uomo viene concesso e perdonato tutto, chiunque altro al suo posto non sarebbe nemmeno presentabile come candidato.
L’ex capo dello staff di Trump alla Casa Bianca, il generale a quattro stelle John Kelly, dichiara che l’ex presidente è un “fascista” che governerebbe come un dittatore. Niente. Quaranta su 44 membri della sua ex amministrazione hanno detto cose analoghe. Niente. “Hitler ha fatto delle cose buone” e “mi piacerebbe avere i generali che aveva Hitler”. Impatto nullo. Praticamente tutti gli scandali in cui negli ultimi otto anni è stato coinvolto il tycoon hanno suscitato ondate di indignazione dei democratici e delle teste d’uovo liberal, il mondo accusato di alimentare la politica woke, e spallucce dei repubblicani. Tutto qui. È il blob della politica americana.
Ancora più indecente è l’atteggiamento della grande finanza, gli uomini di Wall Street, i padroni del mondo. Steve Schwarzman, il co-fondatore di Blackstone, personaggio del private equity che vale oggi 50 miliardi di dollari, ne valeva 23 quando Biden è salito al potere. Il suo patrimonio è più che raddoppiato con l’amministrazione democratica in carica. Aveva condannato l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio. Era contro Trump. Ora Schwarzman lo appoggia e si è convinto che se non sarà lui presidente, allora è tutto finito. La storia non può spiegare questi fenomeni, la contabilità nemmeno, perché Kamala Harris, se fosse eletta, non proporrebbe di tassare la ricchezza di Schwarzman molto più di quanto farebbe lo stesso Trump. Solo la psicologia sociale, forse, può chiarire le decisioni degli americani (a proposito di emotività femminile…). Solo la paranoia giustifica i perché di un atteggiamento indifendibile, insostenibile, irricevibile. Non è un’attitudine razionale quella che potrebbe portare un aspirante fascista al potere a Washington.
Musk è l’epitome dell’irrazionalità americana. È difficile – essendo razionali – non essere contro la figura ambigua di un Elon Musk eccitato e impegnato pancia a terra per riportare alla White House il collega miliardario. “Non si è mai visto un oligarca in una democrazia occidentale intervenire su una scala simile con menzogne ininterrotte al livello di Goebbels”, ha scritto un opinionista democratico. Altri evocano l’influenza dell’X Factor nelle presidenziali, alludendo all’uso spregiudicato che l’uomo più ricco del mondo fa della sua piattaforma social. Da gennaio Elon ha utilizzato X per accumulare quasi 3,3 miliardi di visualizzazioni alimentando voci su frodi elettorali date per certe – lo racconta un’inchiesta della Cbs News – facendo da cassa di risonanza a varie teorie della cospirazione, con una raffica di post a base di disinformazione e fake news. E se fosse eletta Harris, lui – l’ha già previsto – passerebbe guai seri.
Infine c’è il capitolo sondaggi. Nemmeno Nate Silver, considerato l’oracolo dei sondaggisti, sa che pesci pigliare. Un numero elevato di sondaggi – scrive Silver – mostra gli stati in bilico (Michigan, Pennsylvania e Wisconsin) entro 2 punti in entrambe le direzioni e nessuno, tranne forse il già citato New York Times/Siena, sembra avere il coraggio di pubblicare Trump a +5 o Harris a +6, per esempio. “Quindi – scrive Silver – può darsi che se i sondaggisti si mettessero una benda sugli occhi, sarebbero un pelo più favorevoli ad Harris rispetto ai numeri che stiamo vedendo, influenzati dalle recenti ‘vibrazioni’ a favore di Trump. Forse. O forse no“. Elezioni molto difficili, ammette il sondaggista, perché non si tratta di un caso in cui le ‘vibrazioni’ dicono Trump e i dati dicono Harris. Piuttosto, il sentiment indica Trump e i dati dicono che non lo sappiamo. “Non sto cercando di prevedere la direzione dei sondaggi. Ma il punto è che si dovrebbe presumere che un errore nei sondaggi a favore di Trump sia più o meno altrettanto probabile di uno a favore di Harris”.
L’ultimissimo fotofinish basato su indagini di opinione di Morning Consult e Quinnipiac è stato analizzato da The Economist ed è a favore di Kamala Harris, nei tre stati chiave in bilico nella Rust Belt. Le possibilità della democratica di vincere il Michigan sono aumentate di cinque punti, in Pennsylvania di quattro e in Wisconsin di tre. Questi swing states si muovono insieme e rappresentano la strada più probabile per Harris di diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti, raggiungendo i fatidici 270 voti elettorali necessari per la vittoria. Ma sarà così? Nessuno dimentica che, nel 2016, Trump era dato perdente.