Mentre Giulia Cecchettin si preparava con entusiasmo al grande giorno della laurea, Filippo Turetta, il suo ex ragazzo incapace di rassegnarsi dopo essere stato lasciato per due volte, stilava un elenco di cose da fare e oggetti necessari per un rapimento. Mentre Giulia Cecchettin pensava con trepidazione a quale vestito elegante indossare e alla corona di alloro che avrebbe messo in testa di lì a pochi giorni, Filippo Turetta andava a comprare sacchi di nylon, un paio di coltelli, ordinava in rete un rotolo di nastro adesivo per tapparle la bocca e legarle le mani. Mentre Giulia Cecchettin si confidava con la sorella Elena e gli amici, facendo piani per la nuova vita che sarebbe cominciata dopo quel primo passaggio accademico, Filippo Turetta, che la sentiva allontanarsi sempre di più, preparava meticolosamente il piano, anche se è rimasto incerto fino all’ultimo – dice ora – se sarebbe passato alla fase esecutiva. “Avevo pensato di rapirla per stare un po’ con lei, poi alla fine le avrei tolto la vita…”. Per questo aveva cercato su internet luoghi solitari dove portarla, perfino una galleria ferroviaria in disuso e una cava di montagna.
SOLO UNA VOLTA PRONUNCIA IL NOME DI GIULIA. Soltanto una volta, durante un allucinante interrogatorio durato quasi sei ore, drammaticamente privo di emozioni, Filippo Turetta riesce a pronunciare il nome di Giulia, che ha assassinato a colpi di coltello la sera di sabato 11 novembre, in auto, tra Vigonovo e Fossò, in provincia di Venezia. Solo una volta si commuove. Mai dice: “L’ho uccisa”. Le ha tolto la vita, come se avesse fatto addormentare una bambola. Mai parla di lei come di una persona che ha amato. Si riferisce, con voce monotona e incolore – farfugliando se… ma… sì… no…evidentemente… – al simbolo di un’ossessione, una giovane donna, ventiduenne come lui, che voleva soltanto per sé. Non sapeva intravedere nella vita un orizzonte diverso dallo stare il più a lungo possibile assieme alla compagna di università, dolce, graziosa e generosa. Quando ha capito che non sarebbe mai stato possibile, l’ha uccisa.
“CHIEDERE SCUSA È RIDICOLO…”. Le uniche parole di pietà arrivano alla fine della deposizione, unico atto istruttorio di un processo che avrà il suo epilogo a dicembre: “Lei era una persona meravigliosa, ha sempre avuto dell’affetto per me e io le ho fatto questa cosa terribile. Non so se fosse gelosia, invidia, ma non riuscivo a comportarmi diversamente, ero insistente, asfissiante, provavo rabbia, le attribuivo le colpe della mia sofferenza”. All’avvocato difensore Giovanni Caruso, che gli ha chiesto se oggi stia pensando al futuro, risponde: “In questo momento no, devo pagare per quello che ho fatto, espiare… provare ad espiare la mia colpa. Io vorrei sparire”. Alla domanda rituale se si senta di chiedere scusa a Giulia e alla sua famiglia, ha replicato: “In un certo senso vorrei farlo, anche da un punto di vista… emotivo. Ma penso sia ridicolo, fuori luogo, vista la gravità di quello che ho commesso… è qualcosa di inaccettabile. Con le mie scuse causerei ulteriore dolore rispetto a quello che ho causato”.
TRE MEMORIALI. “Ecco, questa è l’unica cosa vera che ha detto”, commenta una zia di Giulia Cecchettin, uscendo dall’aula della corte d’Assise, presieduta dal giudice Stefano Manduzio. A metà pomeriggio si è compiuta la confessione pubblica di Filippo Turetta, preceduta qualche giorno fa dall’invio di un memoriale di 81 pagine, composto di tre memorie scritte in momenti diversi nel carcere di Montorio a Verona, dove è detenuto dopo una caccia all’uomo durata una settimana e conclusa in Germania. Filippo Turetta assicura di voler raccontare “tutta la verità e le emozioni che ho vissuto”, anche se poi i vuoti di memoria, i ‘non ricordo’, le pause e i silenzi prendono il sopravvento, nell’interrogatorio orale, sulla ricostruzione precisa dei gesti. È il racconto smozzicato di una battaglia ingaggiata con le ombre della propria mente e di un cuore malvagio, mentre Giulia, ignara, inerme, si avviava verso un epilogo tragico. “Quella sera del 7 novembre ho iniziato a fare vari pensieri nella mia testa, perché avevo pensato di rapirla e poi farle del male. Avevamo appena litigato, ero arrabbiato e avevo fatto dei tremendi pensieri di risentimento, così ho fatto quella lista sul cellulare per sfogarmi, per tranquillizzarmi. Ma pensavo ancora che le cose potessero cambiare”.
UN PROGETTO DA ERGASTOLO. Il pubblico ministero Andrea Petroni trova nel memoriale e in un arco di pochi giorni tutte le tracce di un progetto che il 25 novembre lo porterà quasi certamente a chiedere la pena dell’ergastolo. Innanzitutto un accesso in rete di Filippo, per navigare senza lasciare tracce. Poi un prelievo con il bancomat (l’unico effettuato nel 2023) per procurarsi i soldi per il rapimento e la fuga. Quindi una raccolta di informazioni su manette professionali e su come può essere rintracciata la targa di un’auto. Poi l’acquisto di nastro adesivo resistente e di due coltelli. Per finire, l’acquisto di alcuni sacchi di immondizie, serviti per coprire il corpo di Giulia, abbandonato nella zona di Piancavallo (Pordenone). Le risposte di Filippo non sono convincenti, i ricordi evaporano. Dice di essere rimasto indeciso fino all’ultimo: “Le cose le tenevo là, mi preparavo, poi si vedrà”.
NON RICORDA LE COLTELLATE. È evidente che nella sua testa avrebbe gradito il lieto fino, la ripresa di una relazione con Giulia. “Nelle settimane precedenti c’erano state cose che mi portavano ad avere speranza”. Eppure si è preparato anche per uccidere e poi uccidersi. Ma mai ha spiegato se abbia davvero cercato di infierire su di sé, quando è diventato un uomo in fuga, arrivando fino a Berlino per comprare un coltello. La sera fatale viene ricostruita in tutti i passaggi. Prima lo shopping alla Nave de Vero, a Marghera, poi un panino da Mc Donald’s. Quindi l’ultimo giro in auto verso Vigonovo. I due ragazzi si sono fermati a chiacchierare in auto, ma non davanti alla casa di Giulia, lui ha voluto andare un po’ più lontano. Un nuovo litigio, la partenza verso Fossò. Una prima sosta. “Lei è scesa dalla macchina, io ero arrabbiatissimo – ha scritto nel memoriale – non volevo se ne andasse così. Sono uscito anch’io, con il coltello… non lo so se l’ho colpita… non ricordo… può essere, perché mi sono trovato in mano solo il manico del coltello”.
“LA RITENEVO COLPEVOLE…”. Giulia Cecchettin è stata gettata sul sedile posteriore. L’auto è ripartita. “Lei ha cominciato a parlare, io voleva farla stare in silenzio, ho preso lo scotch per chiuderle la bocca, ma non ci sono riuscito. L’ho colpita a una coscia durante il tragitto, tirando colpi a caso”. La scena finale è una nebbia, nelle parole di Turetta, nonostante gli avvocati di parte civile, Cosimo Gentile e Stefano Tigani, cerchino di stanare l’imputato reticente. Perché ha ucciso Giulia? “Io volevo tornare insieme a lei, avevo rabbia, risentimento, la ritenevo colpevole perché senza di lei non riuscivo a portare avanti la mia vita. Volevo che il nostro destino fosse lo stesso”.
“L’AVEVO INSULTATA”. Turetta ha una memoria maniacale quando ricostruisce il suo legame con Giulia. “Io ero chiuso, introverso, mi sentivo non attraente, poco interessante. Non ho mai avuto una ragazza. Poi l’ho conosciuta all’università. Ci siamo fidanzati il 22 gennaio 2022. La prima volta mi ha lasciato il 16 o 17 marzo 2023, perché ero troppo ossessionato dal nostro rapporto, ero pesante, mi spiaceva quando usciva con le amiche dell’università. Siamo tornati assieme il 2 aprile 2023. Mi ha lasciato ancora il 31 luglio. Ad agosto ci siamo frequentati ancora come amici e siamo andati a due concerti a Vienna e Milano perché avevamo già comperato i biglietti”. Tanti, troppi litigi: “Io l’ho insultata, le dicevo cose pesanti brutte, poi le promettevo che sarei cambiato”.
HA CANCELLATO LA MORTE. Turetta sembra aver cancellato emotivamente la morte di Giulia. Soltanto dopo grandi insistenze ammette: “Ho usato il coltello quando eravamo in macchina… mi ricordavo 12-13 coltellate, poi hanno detto che erano molte di più. Ho colpito al collo perché era più veloce, lei si difendeva con il braccio e spostava il corpo. Ha detto: ‘Cosa stai facendo? Fermati’”. Gino Cecchettin, il papà, ha ascoltato impietrito. “Ho colpito più velocemente possibile, senza guardare”, ha continuato Filippo. Perché ha coperto il corpo con i sacchi, quando l’ha gettato in un dirupo? “Perché non si vedesse il suo corpo… in cattive condizioni per le ferite… lei non c’era più e sarebbe stato brutto vederla così”.