Saddam Hussein spaventa ancora il Kuwait. Anche se il suo volto è riprodotto in un videogioco. Nel piccolo Paese arabo, gli appassionati di Call of Duty – assieme alla serie concorrente Battlefield, lo “sparatutto” più famoso sulle varie piattaforme ludiche – non potranno giocare “Black Ops 6”, l’ultimo episodio della serie pubblicato da Activision-Microsoft. Le autorità del Kuwait, ad un giorno di distanza dal lancio ufficiale del prodotto, previsto domani su scala mondiale, hanno vietato la distribuzione. A chi avesse prenotato una copia, è stata garantita la restituzione della somma. Una motivazione ufficiale non c’è, ma la riproduzione all’interno della narrazione ludica, che richiama alla prima Guerra del Golfo (2 agosto 1990 – 28 febbraio 1991), appare la spiegazione più immediata.
Bandiere irachene che sventolano, scenari con pozzi petroliferi che bruciano nel deserto, il volto di Saddam Hussein, sono ancora dettagli che, per il governo del Kuwait, sono fuori posto in un videogame. L’invasione con 100 mila soldati ordinata dal dittatore – la cui fine fu poi segnata nel dicembre 2003 – per impossessarsi delle risorse energetiche, in nome di una comunità etnica con il Kuwait – sebbene l’indipendenza del piccolo emirato fosse stata riconosciuta dalla Lega Araba – portò ad una guerra che segnò uno spartiacque: sia sul piano mediatico, che su quello geopolitico. Gli Stati Uniti sollecitarono una coalizione a cui presero parte 35 Stati: nacque così l’operazione Desert Storm che cacciò gli iracheni dal Kuwait. Le conseguenze, come sempre, le pagarono i civili: si calcola che durante il conflitto furono piazzate due milioni di mine antiuomo, anche in zone desertiche, e che persino ai giorni nostri si contano vittime a causa di questi ordigni; furono bruciati 700 impianti petroliferi con conseguenze devastanti per l’ambiente. Come in tutte le guerre, ci furono episodi in cui le “bombe intelligenti” fecero strage di inermi.
Insomma, la questione sembra di nicchia, legata al mondo dei videogiochi, ma non è solo questo, tanto che persino la Associated Press ha chiesto un commento al governo del Kuwait, senza ottenere risposta. Non è la prima volta che la serie Call of duty sollecita reazioni negative: trattando temi di missioni segrete, operazioni di commandos dentro contesti di geopolitica sempre con una visione occidentale, ha suscitato malumori in Russia e Cina; nel 2009 un episodio della serie permetteva al giocatore di simulare un attacco dentro un aeroporto russo, con vittime civili. Mosca non ne fu contenta.
Nel gioco “Modern Warfare II”, si poteva giocare una missione con l’obiettivo di eliminare un alto ufficiale dell’Iran dal nome Ghorbrani, in cui si riscontrarono similitudini con l’operazione americana per uccidere Soleimani (3 gennaio 2020). Nel 2021, “Call of Duty: Vanguard”, nella modalità zombi, ha avuto critiche dal mondo islamico perchè in uno degli episodi si vedevano pagine del Corano strappate e lasciate a terra. Molti utenti accusarono Activision di islamofobia, tanto da indurla a scuse, e a rimuovere quel contenuto.
Probabilmente il divieto del Kuwait di distribuire “Black Ops 6” non fermerà gli appassionati, che ricorreranno ad altre strade per immergersi nel mondo virtuale dei protagonisti e ingaggiare scontri letali nella modalità multiplayer. Resta comunque il dato di cronaca, e di come anche un episodio in apparenza marginale, possa evidenziare una diversa sensibilità nel racconto – seppur di finzione – di mondi contrapposti. Ancor di più oggi, con due conflitti veri in corso.