Domenica e lunedì 27 e 28 ottobre, si giunge alla stretta del sacco nella campagna elettorale che ha ribadito tutti gli aspetti più deteriori di una vita pubblica ligure dominata dai criteri verticistici da democrazia bloccata; di cui il capoluogo genovese è stato emblema e diffusore per tutto il Novecento.
Da quando venne azzerato il conflitto sociale in età giolittiana tra le combattive maestranze del porto (i camalli del carbone, i carbuné) e un padronato sulla difensiva, spalleggiato dalla polizia che chiudeva la Camera del Lavoro. Una gelata che nel secondo dopoguerra si è tradotta nella spartizione consociativa tra “i rossi” del PCI e il city boss Paolo Emilio Taviani (“la città divisa” descritta dal sociologo Luciano Cavalli), in cui ai primi andava il controllo del Ponente operaio e al leader DC spettava la Genova affari e finanza, oltre ai quartieri borghesi a Levante. Una tendenza – la politica guardiana della società – confermata negli ultimi decenni dall’intercambiabilità programmatica, a partire dalla svendita di sanità e territorio, tra le cordate di sinistra e destra succedutesi nell’occupazione delle istituzioni locali: buona parte delle pratiche industrializzate dal totismo erano una ripresa di quelle artigianali del burlandismo. Con la comune frequentazione dello yacht di Aldo Spinelli, pontefice massimo dell’affarismo ambientale.
Difatti, per tutto il doppio mandato di Giovanni Toti in piazza De Ferrari, la reggia dell’Ente Regione trasmessagli da Claudio Burlando, l’unica opposizione in campo, nel sostanziale silenzio di quella politica, è stata sociale: i movimenti e i circoli che scendevano in piazza, seppure in ordine sparso, su tematiche specifiche (volta per volta: salute, ambiente, lavoro) che non producevano masse critiche. Difatti, un soggetto immediatamente emarginato dalla politica politicante nel momento in cui incombeva la scadenza elettorale: a parte un tentativo di Italia Nostra di definire i principi irrinunciabili di una svolta effettiva, l’ansia di protagonismo dei capipopolo si è tradotta in documenti chilometrici di genericità che non hanno minimamente influenzato il dibattito pubblico.
Eppure il quadro del potere in Liguria sembrava totalmente destabilizzato dalla magistratura che aveva scoperchiato il Totigate. Ma la risposta che è emersa immediatamente è stata quella di esorcizzare il cambiamento ripristinando il controllo della politica sulla società: il sinedrio semi-vuoto del Pd metteva in campo l’usato sicuro incarnato dal ministeriale Andrea Orlando. Più complicata la scelta per la destra. Ma qui è intervenuta direttamente la premier Meloni con tutto il cinismo protervo di cui è capace: spazzando via il coro pigolante degli aspiranti candidati e puntando sulla candidatura ad effetto del sindaco di Genova, che lotta da tempo contro un nemico feroce che si annida nel suo corpo malato; quanto condizionato dai deliri di onnipotenza da demiurgo del fare (o meglio di annunciare il fare).
Ne è saltata fuori una campagna elettorale a dir poco imbarazzante, con un Bucci nel cui sguardo spesso smarrito non trovi traccia dell’antica tracotanza, con aspetti spettrali di un volto in cui la barba rimane solo sul lato destro lasciando glabro l’altro per gli effetti delle terapie. Probabilmente funzionale alla strategia meloniana di occultare il lascito devastante del totismo facendo leva sull’emozione del calvario precettato, da turlupinare con candidature a termine (quanto la premier aveva inaugurato presentandosi alle europee come specchietto per le allodole).
Ma il prode Orlando che fa? La sua linea comunicativa pareva scritta proprio dalla catastrofe dell’esperienza-Toti. Dunque, costruire un blocco sociale alternativo a quello della Destra recuperando con una radicale alterità riconoscibile la massa elettorale congelata nel non-voto. Operazione rivelatasi impraticabile per un invecchiato funzionario di provincia del Pci, che da anni occupa poltrone romane senza lasciare traccia del proprio passaggio. Un prigioniero della gabbia mentale che ha reso la sinistra una simil-destra con le furbate opportunistiche della Terza Via blairiana, italianizzate dai Veltroni e dai Napolitano.
Nel desiderio irrealizzabile di accaparrarsi il voto conservatore tenendosi lontani dai pericolosi bacini elettorali progressisti. Una tendenza che caratterizza da sempre la politica repubblicana. Ma che cresce esponenzialmente in una regione come la Liguria, anagraficamente la più vecchia d’Italia. Sicché la domanda di rinnovamento risulta inevasa proprio per le due proposte balbettanti in campo; con candidati appaiati nei sondaggi. Il fifty-fifty già delle scorse Europee, come se lo tsunami che ha sconvolto gli organigrammi locali non fosse passato. Su questa vita pubblica triste, solitaria y final; dove il vincitore presumibilmente prevarrà per scarti infinitesimali.