Uno stacco prepotente da calcio d’angolo, il pallone alle spalle di Pagliuca e l’Udinese che batte il Bologna e coglie tre punti fondamentali per abbandonare la penultima posizione. “E dire che quella partita non l’avrei neppure dovuta giocare”: parola dell’autore di quel gol di vent’anni fa, Dino Fava Passaro, che di lì a poco Bologna l’avrebbe avuta nel destino, e non più da avversario. “Che squadra quell’Udinese: partimmo male ma la rosa era fortissima. Due portieri come Handanovic e De Sanctis, Kroldrup, Di Natale, Di Michele, Iaquinta, Pizarro, Jankulovski. Infatti arrivammo in Champions League”. E in panchina c’era Spalletti, che Fava Passaro ricorda così: “Se mi aspettavo il successo che ha avuto Luciano? Non è che me lo aspettavo, lo sapevo: un allenatore metodico, quasi maniacale. Capitava che guardasse le partite degli avversari cento volte per trovare punti deboli e neutralizzare quelli forti. Fuoriclasse anche nei rapporti: c’è un aneddoto su quella partita di cui parlavamo prima, a Bologna con mio gol decisivo, dicevo che ero certo di non giocare. Un’ora prima della partita non solo mi dice che sarei partito titolare, ma aggiunge ‘quando segni, poi vieni ad abbracciarmi’. Infatti con lui arrivammo in Champions”.
Spalletti che ha avuto Napoli nel destino, vincendo lo storico terzo scudetto; Fava invece da Napoli era partito, seppure in circostanze ben diverse, a metà anni ’90. Gli azzurri avevano una Primavera che volava e il mister, Enzo Montefusco, parlando della coppia d’attacco qualche anno dopo, disse: “Avevo Scarlato che faceva 30 gol a campionato e Fava, che invece non segnava mai”; un po’ schernendosi, perché poi Gennaro Scarlato sarebbe diventato un ottimo centrale difensivo e Fava un bomber di Serie A. “Ma Montefusco aveva ragione – commenta l’ex punta – vincemmo la Coppa Italia primavera e Gennaro segnava tanto, io invece mi sacrificavo molto per la squadra. Poi ho fatto qualche gol in più ma lo spirito di sacrifico mi è rimasto”.
Così come l’amaro in bocca per quell’avventura azzurra: “Altri tempi purtroppo: oggi i ragazzi quasi non comprendono il privilegio che vivono quando crescono in club del genere, io non ho dormito per una settimana quando sono arrivato a Soccavo e ho avuto la possibilità di stare vicino ai calciatori della prima squadra. Mi mandarono in prestito ad Acireale e fu un annata straordinaria per la mia crescita, ricordo il capitano dei siciliani che mi disse ‘Dino, hai qualità importanti, ma qui siamo in C e devo portare il pane a casa’. Allora la C era durissima. Poi, pur avendo tante offerte, volevano mandarmi in C2 in prestito, rifiutai e rimasi un anno fermo: per fortuna Montefusco mi fece giocare qualche partita coi ragazzi come fuori quota. Così si chiuse amaramente la mia esperienza col Napoli”.
Col Napoli, e col pallone in generale? Il rischio c’è stato: “A quel punto ho pensato che la mia esperienza col calcio fosse finita” dice il bomber, che di sliding doors in carriera ne ha viste tante. “Perdere un anno quando sei un giovane e non ancora ti sei fatto il nome è pesantissimo: infatti mi ero iscritto all’Università e avevo anche iniziato a studiare e dare esami, certo che avessi chiuso col calcio professionistico. Invece arrivò la telefonata della Pro Patria in C2: mi davano solo vitto e alloggio e un rimborso spese ma a me andava bene così, feci 12 gol e mi comprò il Varese”. Resta due anni: “Il primo così così. Il secondo faccio 16 gol e mi prende la Triestina in comproprietà. Loro erano in B e avevano una bellissima squadra, con Zanini, Baù, Parisi (che poi sarebbe diventato il Roberto Carlos dello Stretto)”. In quell’annata Fava Passaro trasforma in gol praticamente ogni pallone che tocca, pur essendo al debutto in cadetteria: “Merito della squadra però, io ero forte di testa e avevo gente che crossava al bacio: praticamente la situazione perfetta per me”.
Ne fa anche due a un Napoli ormai prossimo al fallimento: “Cosa ho provato? Soddisfazione, forse rabbia in quel momento, ma poi cresci e ti rendi conto che non mi ha fatto male una squadra intera, ma una sola persona che si era impuntata, che non voglio neanche nominare”. Ventidue gol, capocannoniere della B, a quel punto Fava è on fire, ha tante richieste dalla Serie A, ma ecco lo sliding doors: “Si va alle buste e il Varese spende anche un sacco di soldi per prendere il mio cartellino. Ero convinto ci fosse una società di A dietro, e invece passano i giorni e non accade niente: inizia a farsi strada l’idea di diventare forse l’unico attaccante nella storia che fa benissimo in B e invece di salire di categoria scende”. Qualcosa sembra cambiare: “Mi chiama Pierpaolo Marino, all’epoca all’Udinese, più che altro per la curiosità di capire come mai non mi avesse preso ancora nessuno. Mi disse di lasciar fare a lui, e all’ultimo giorno di mercato mi dice di andare a Milano: mi misi in macchina, ma mentre ero in autostrada mi chiamò il presidente del Varese. ‘Che vieni a fare? L’Udinese non vuole darmi un euro in più di quello che ho speso per te, non ti vendo’ mi disse, accostai e scoppiai a piangere. Richiamai Marino e mi disse di andare lo stesso. Alle 18 e 58, due minuti prima della chiusura del calciomercato, ero un calciatore dell’Udinese: stavo morendo, letteralmente”.
Arriva a campionato già iniziato, e in una squadra già collaudata: “Infatti non mi aspettavo di giocare subito, invece Spalletti comincia a darmi minuti fin dall’inizio. Contro l’Inter entrai nel secondo tempo e mi procurai un rigore che Pizarro però sbagliò, contro l’Ancona partii titolare e feci doppietta”. Saranno dodici gol alla fine: “Di cui tre a San Siro contro Milan e Inter: quello stadio mi porta bene. Anche se al debutto lì mi tremavano le gambe: vedevo uscire dallo spogliatoio Dida, che era praticamente un armadio, poi Pirlo, poi Shevchenko, poi Kakà. Mentre giochi non pensi granché, poi ti fermi su un calcio d’angolo, ti guardi attorno e ti dici “Ca..o, mi sta marcando Maldini” e poi fai pure gol. Un sogno”. Mentre segna a Udine un’altra sliding doors: “Marino si era trasferito a Napoli, che intanto era ripartito dalla C: mi cercarono offrendomi anche un sacco di soldi, non ci ho dormito per un po’, ma stavo giocando bene in A e alla fine non accettai”.
E allora arriva la scelta sbagliata: “Un anno dopo andai a Treviso, era arrivato sesto in B, ma dopo Calciopoli fu promosso d’ufficio in A. Lo scherzetto me lo fece Ezio Rossi che avevo avuto come mister a Trieste: un peccato, la squadra fu allestita in fretta e furia e non riuscì a salvarsi”. Ma per Dino a trent’anni arriva una chiamata importante, di quelle che ti fanno entrare di diritto nel cuore di una città: “A Bologna in B andai convinto: feci solo due gol, peraltro i due gol decisivi per andare in A, ma feci tantissimi assist per Marazzina. I tifosi per questa mia abnegazione, per il vedermi correre e sudare mi intonavano cori e ancora oggi quando vado lì mi trattano come un re: Bologna ce l’ho nel cuore”. Tanto che è anche nel libro de Lo Stato Sociale, con un capitolo tutto dedicato a lui, ispirazione per il protagonista che trova anche un cane chiamandolo “Dinofava”: “Inaspettato, ma bellissimo”. Dopo Bologna la Salernitana, la Paganese e tanti anni tra i dilettanti: “Che bel mondo, all’inizio avevo un po’ paura, poi mi sono divertito tantissimo e mi sono tolto belle soddisfazioni: c’è semplicità, allegria e devo dire che a livello di organizzazione il calcio di provincia è cresciuto moltissimo”. L’ultimo campionato, dice Dino, è stato davvero l’ultimo: “Penso di sì, ora voglio allenare, ma non i grandi: mi piace di più educare i ragazzini, ho iniziato a Mondragone, c’è una realtà straordinaria”. E chissà che qualcuno di quei ragazzini un giorno, giocando a San Siro, avrà gli stessi pensieri di Dino Fava.