26Bisogna prendere molto sul serio le parole di Marcello Dell’Utri che, alla domanda sulla “discesa in campo” dei figli di Berlusconi, risponde che le circostanze sono molto diverse da quelle di allora. Ha ragione.
Se tra il 1989 e il 1994 bisognava resistere al terremoto politico provocato dalla fine della Terza guerra mondiale (meglio nota come “Guerra Fredda”), inventando nuovi veicoli che consentissero almeno ai più robusti di passare indenni sotto le macerie a qualunque costo e cioè, per mutuare dalle ispirate parole del ministro Salvini, di imbarcare “cani e porci” (ovvero mafiosi, piduisti, fascisti e razzisti secessionisti) portandoli in salvo, oggi la partita è un’altra. Oggi, avendo gli eredi-al-quadrato (del Duce e di Berlusconi) preso saldamente nelle mani il potere istituzionale, la partita è tutta culturale, ma guai a confondersi: non per questo è una partita meno grave, anzi lo è in maniera esponenziale, perché è con la cultura che si cambia in profondità la realtà di un Paese (rectius, di una Nazione).
Qual è la posta in gioco? Da un lato recuperare il fascismo dai rottami maledetti della storia, dall’altro giustificare quanto accaduto tra il 1989 e il 1994, sgombrando il campo definitivamente da tutti gli spettri che avvelenano la narrazione epica della fondazione della “Seconda Repubblica”, quella che baluginò davanti agli occhi degli italiani per la prima volta all’inaugurazione dello shopville Gran Reno di Casalecchio il 23 novembre 1993, con Berlusconi che rispose ai giornalisti: “Se fossi romano, voterei per Fini”. Per questa partita l’impero Mediaset è ancora più importante di quanto non lo fosse trent’anni fa, tanto più con i chiari di luna al Ministero della Cultura e Solarità Meridiana.
In questa prospettiva credo vada letta l’aggressione sistematica a Federico Cafiero De Raho e a Roberto Scarpinato in Commissione Antimafia. Ne ho già scritto e non ci torno, se non per sottolineare che la situazione si sta facendo ancora più allarmante con la presentazione formale della proposta di legge per bandire dalla Commissione i componenti in presunto conflitto di interessi.
Peccato per l’antimafia! Perché mentre le risorse migliori del Parlamento sono impiegate nello sforzo di riscrivere la storia italiana, passando per la riscrittura della strage di Via D’Amelio, le mafie, cui non difetta la propensione ad accumulare ricchezze in maniera illecita, contendo agibilità alla politica democratica, si stanno riorganizzando alla grande, in una dimensione sempre più transnazionale, fatta di droga, violenza, nuove tecnologie e riciclaggio, tutte caratteristiche che si intravedono nell’ultimo successo delle polizie italiane e alleate che hanno arrestato a Medellin il boss Gustavo Nocella.
C’è poi un’altra notizia che fonda l’impressione che le mafie siano in fase espansiva, una notizia passata un po’ in sordina forse a causa della cattiva stampa da cui è bersagliata l’Onu da quando si è impuntata a difendere l’esistenza del diritto internazionale, ovvero l’aumento esponenziale della quantità di terreni colombiani dedicati alla coltivazione di coca – passati in un anno da 230mila ettari a 253mila ettari (fonte Undoc), nonostante la pluridecennale attività governativa di contrasto. Vuol dire che il mercato… tira!
Le storie che arrivano da alcune aree del nostro Paese inoltre smentiscono l’adagio per cui le mafie non sparano più: mafiosi e aspiranti tali continuano ad adoperare la violenza come riserva e fondamento di potere e di identità e a pagarne sempre più spesso il prezzo sono giovanissimi inermi, come nel caso di Antonella Lopez a Bari e del ragazzino di 15 anni, Emanuele Tufano, freddato davanti a un chiesa a Napoli nonostante il famigerato “decreto Caivano”, che ha prodotto soltanto la saturazione ulteriore, indegna e pericolosa, del sistema penale minorile.
Mancano i “morti eccellenti”: un po’ per furbizia, un po’ perché, riprendendo le sagge parole dell’ex senatore e pregiudicato Dell’Utri, le circostanze oggi sono molto diverse da allora. Ma l’alchimia tra violenza mafiosa di strada e politica criminale altolocata potrebbe rifiorire all’occorrenza, come è sempre successo nella storia del nostro Paese, vuoi per neutralizzare minacce diversamente non governabili (come le vicende di Daphne Caruana Galizia e di Ian Kuciak ci rammentano), vuoi per alimentare opportunamente la percezione di una minaccia incombente. In questo senso non tranquillizzano le notizie che riguardano la scarcerazione per decorrenza termini di alcuni boss d’altri tempi. Quelli che non tornano più, secondo la chiosa melanconica del più volte citato ex senatore.