Il governo ci ha riprovato. Un emendamento soppressivo per liquidare, senza discussione, la proposta delle opposizioni sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Esattamente come avvenuto sul salario minimo.

Ma la destra non padroneggia nemmeno la fuga con destrezza. E infatti ieri, in Commissione Lavoro, i numeri per approvare l’emendamento soppressivo le sono mancati. La nostra proposta di legge arriverà in aula lunedì, senza mandato al relatore. Intanto la Ministra Calderone ha fatto sapere con una nota che si tratta di un’operazione di “propaganda politica”. Un ribaltamento assoluto: chi tenta di intervenire sulla realtà sociale del Paese è tacciato di propaganda, chi vive di propaganda ritiene di fare politica.

Saranno costretti a misurarsi col merito di ciò che chiediamo. E con quello che è già un successo: l’unità delle opposizioni, ancora una volta, su una proposta che può cambiare le condizioni di vita delle persone.

Un’inversione di tendenza necessaria. Perché in Italia, dal 1990 al 2020, sono diminuite del 2,9 per cento le retribuzioni reali dei lavoratori, e la parabola della riduzione dei salari, invocata per aumentare la competitività, ha corso in parallelo a quella dell’aumento degli orari. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, l’Italia, subito dopo la Grecia e l’Estonia, è il Paese dell’area euro dove si lavora per il più elevato numero di ore settimanali, ossia 33, tre ore in più rispetto alla media dell’area (di 30 ore), addirittura sette in più rispetto alla Germania, dove l’orario è già attualmente ridotto ai minimi termini (26 ore per settimana). Seguono i Paesi Bassi (28 ore) e il Granducato del Lussemburgo, l’Austria e la Francia (tutti con 29 ore di lavoro settimanali).

Tuttavia, a ben guardare, più che un aumento generalizzato vi è una polarizzazione: da un lato, lavoratori a tempo pieno il cui orario di lavoro spesso si allunga al di là delle 40 ore settimanali. Dall’altro, l’esercito crescente dei lavoratori part-time. E ogni evidenza, a partire dal rapporto annuale Istat 2024, indica che la sottoccupazione è causa di povertà lavorativa.

La pandemia di Covid-19 ha fatto esplodere questi fenomeni, ma al tempo stesso ha dimostrato che è possibile essere produttivi e creativi in situazioni difficili. Questo impone un ripensamento della struttura del lavoro. Così come lo impongono i nuovi sistemi organizzativi e tecnologici che già consentono incrementi di produttività e rimodulazione dei tempi della prestazione lavorativa.

In Europa, molti Paesi lo hanno capito, anche prima del Covid-19: il primo esperimento fu condotto nel 2015 e 2016 a Reykjavik. Da allora, l’86 per cento dei lavoratori islandesi ha optato per la settimana corta. Dopo la pandemia, il modello ha cominciato a diffondersi: in Belgio, in Portogallo, in Francia, in Germania, nei Paesi Bassi, in Danimarca, in Norvegia e in Svizzera. Perfino in Italia, nonostante il contesto, alcuni contratti aziendali stanno già prevedendo la possibilità di articolare la prestazione lavorativa su quattro giorni settimanali: da Intesa Sanpaolo a Mondelez International, da Awin Italia a Tria spa, da Lamborghini a Luxottica.

Insomma, la riduzione dell’orario sta diventando uno strumento desiderabile anche per le organizzazioni che lo promuovono, non solo per i lavoratori e le lavoratrici. Uno strumento capace di ricreare le condizioni di quella convergenza di interessi fra lavoro e imprese da tempo perduta. Soprattutto, ormai numerose analisi ci raccontano le tante ragioni per cui tutto questo ci serve: perché esiste una correlazione tra diminuzione dell’orario di lavoro e aumento della qualità del lavoro e della produttività; perché c’è un rapporto chiaro fra orari ridotti e tassi di occupazione più elevati; perché la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento dell’occupazione riducono lo stress da lavoro, le patologie legate all’iperlavoro, gli infortuni; perché lavorare meno libera tempo ed energie per la vita privata, la partecipazione sociale e le relazioni; perché potrebbe finalmente portare a una concorrenza fra imprese fondata sulla piena e buona occupazione, anziché sul contenimento dei costi produttivi; perché giornate di lavoro più brevi per uomini e donne e la diffusione di una diversa concezione del lavoro potrebbero produrre un riequilibrio di genere; perché potrebbero costituire la base per ricostruire la fiducia delle giovani generazioni verso il lavoro e promuovere un nuovo “patto generazionale”. Infine, last but not least, perché la riduzione dell’orario significa anche riduzione dell’impatto ambientale del lavoro.

La nostra proposta è semplice: estensione del Fondo nuove competenze, con 275 milioni in più all’anno per sostenere le parti sociali nel sottoscrivere accordi fino a 32 ore settimanali. Un sostegno incentivato per un triennio alla decontribuzione per le imprese (fino al 50% per le Pmi) e su gravosi e usuranti fino al 60. Un Osservatorio nazionale con il compito di monitorare la sperimentazione, e nel 2028 riduzione per legge fino al 10% dell’orario. Si tratta solo di riconoscere una tendenza in atto, di disegnare un futuro di produttività sostenibile in termini economici, sociali e ambientali.

La destra, fino a ora, ha preferito procedere sulla strada della frammentazione e della precarizzazione del lavoro: basta causali sui contratti a termine, liberalizzazione del lavoro somministrato, aumento dei voucher, reintroduzione delle dimissioni in bianco, allargamento della stagionalità e dei contratti misti, ritorno dei contratti precari all’università. Ma è una strada miope e sarà perdente per tutti. A meno che la sinistra e il mondo del lavoro non ingaggino la loro battaglia, ancora una volta, un’ora alla volta per un’emancipazione collettiva.

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