Una volta, tornando in treno a Genova come faccio da quarant’anni, senza volerlo ascoltai un signore veneto che telefonava a sua moglie: “Sono stato a Trieste. Ma sai che è proprio bella? Non sembra neanche Italia”. Questa voce dal sen fuggita mi torna in mente oggi, che si celebra il 70esimo anniversario del ritorno di Trieste all’Italia, il 26 ottobre 1954, nove anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Venti giorni prima, il 5 ottobre – lo dico per quanti hanno ormai sostituito storia e geografia con Google Maps – il Memorandum di Londra aveva restituito all’Italia Trieste e tutta la zona A, ancora occupata da diecimila soldati angloamericani, e attribuito la zona B, con Capodistria, alla oggi implosa Jugoslavia.

Settant’anni fa i triestini, minoranza slovena compresa, festeggiarono per le strade; poi il 4 novembre, giorno della vittoria nella prima guerra mondiale, le forze armate italiane fecero la loro bella parata sulle Rive, dinanzi al porto non ancora turistizzato. Le foto di Piazza Unità gremite di una folla festante, per la verità, non sono poi troppo diverse da quelle di quasi vent’anni prima: quando Mussolini, sbarcato dal molo Audace, era venuto a porre la prima pietra dell’Università nuova e ad annunciare le leggi razziali, già sperimentate sulla comunità slava. Non ho modo di controllare ma ancor oggi, nell’Università dove lavoro, solo un terzo degli iscritti porta cognomi italiani; l’altro terzo ne porta di slavi, e il terzo restante di slavi italianizzati.

Cosa accomuna tutti questi eventi? La festa. A distinguere Trieste e tutto il Nordest è proprio la voglia di vivere: che nell’ex triangolo industriale – Milano-Torino-Genova – s’è persa da mo’. La Città Interiore di Mauro Covacich è ancora capace di felicità: anche se i fasti della Trieste austroungarica, porto franco dell’Impero, difficilmente torneranno. Per dirne una, nel 1987, quando arrivai a Trieste la prima volta, in treno da Genova ci mettevo sei ore e mezzo, viaggiando con gli operai dei cantieri navali. Oggi, che nei cantieri sfruttano i pakistani, ce ne metto otto, di ore. È l’Alta Velocità, bellezza: sinché sei sulla Y che collega Torino e Venezia a Roma, viaggi più veloce; ma altrove, come a Trieste e a Genova, ci arrivi più facilmente con le navi da crociera.

La morale è che storia e geografia non si possono abolire: alla faccia di Google Maps. Non la storia: a Trieste anche le pietre parlano. Non la geografia: magari facendo del Friuli Venezia Giulia, a capitale Udine, un’altra Regione più-che-autonoma, semi-indipendente. Provateci pure, ma le tre anime di Trieste, italiana slava tedesca, resteranno: benché nelle strade, oggi, si senta parlare più americano che triestino. Anche il mito della Mitteleuropa, inventato da Claudio Magris ai tavolini del caffè San Marco, continuerà ad aleggiare imparzialmente su tutti noi, triestini e foresti. Proprio lì, il prossimo 4 novembre, presenterò il mio ultimo libro: sul pluralismo, e su cosa sennò? Perché Trieste sarà anche Italia, ma non solo. È Europa, è mondo.

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