Eravamo come fratelli, di Daniel Schulz (traduzione di Federico Scarpin; Bottega Errante Edizioni), è un coraggioso, spietato e notevole romanzo di formazione al contrario che mostra come i giovani appartenenti alla Freie Deutsche Jugend della proletaria DDR, una volta caduto il Muro di Berlino siano diventati una parodia di un’altra gioventù, quella dei nonni, inglobati, allora, nella Hitler-Jugend.

Il protagonista è un bambino, e poi ragazzino, che vive nel Brandeburgo, a uno sputo da Berlino, e che vive sulla sua pelle la trasformazione della società tedesca orientale nei primi anni Novanta del secolo scorso. La storia è raccontata in ordine cronologico e mostra l’educazione famigliare, scolastica e sociale di quell’epoca. Mostra come tutta l’ex DDR, e soprattutto il Brandeburgo, diventino terreno fertile per far sgorgare il razzismo e la rabbia verso l’altro, verso il diverso e lo straniero. I “furono pionieri” diventano picchiatori con le rune naziste tatuate sulle labbra. I veterani della solidarietà dei popoli vanno in cerca di turchi da prendere a sprangate. Il sottofondo è dato da una musica a volte dura, a volte terribilmente commerciale.

Quello costruito da Schulz è un piccolo mondo antico che si sgretola, in cui i prodotti della Germania occidentale stanno rapidamente soppiantando i beni di consumo dell’ex DDR, dove i padri disoccupati, ex militari o uomini di Partito, se ne stanno a bere nei garage e nei magazzini in disuso e gli scolari diventano nazisti armati di mazze da baseball e molotov per dare fuoco alle abitazioni degli stranieri. Il romanzo sembra suggerire che la violenza costruisce il carattere di questi adolescenti sballottati tra due epoche e due sistemi sociali.

Eravamo come fratelli è un libro diretto, crudo e poetico. È una presa di posizione politica e una forte accusa verso il mondo occidentale che ha fagocitato il socialismo reale disinteressandosi completamente a chi lo viveva e lo subiva. Un The Catcher in the Rye teutonico nel quale Holden Caulfield va in cerca di immigrati da scannare e se ne frega delle anatre che migrano da La Havel verso un mondo migliore.

A nessuno è fregato un cazzo di cosa è successo a Carlotta, di James Hannaham (traduzione di Giovanni Maria Rossi; Edizioni Clichy), è un romanzo originalissimo, dissacrante e esilarante che vede protagonista la trans afro-colombiana Carlotta Mercedes, che ritorna a Brooklyn il weekend del 4 luglio dopo aver trascorso vent’anni in un carcere maschile.

Anni prima, la ventiduenne Carlotta viene coinvolta da suo cugino nella rapina di un negozio di liquori. Carlotta viene sbattuta nella prigione di Ithaca dove viene violentata da detenuti e guardie carcerarie e messa in isolamento per sei anni fino a quando la commissione per la libertà vigilata la rilascia con un anno e mezzo di anticipo. Tornata a New York, Carlotta cerca di ricongiungersi con suo figlio, che non vede da quando il ragazzo aveva nove anni, e rimane sconvolta dai cambiamenti della metropoli e dalla diffidenza della sua famiglia.

Costruito alternando prima e terza persona, con narratore interno ed esterno che si rimpallano come in una frenetica partita di ping-pong, A nessuno è fregato un cazzo di cosa è successo a Carlotta, ha un ritmo vorticoso, con il flusso di coscienza della protagonista che lascia spazio a una visione più ampia della società della Grande Mela, rendendo la storia energica e controversa, con un humus narrativo a tratti comico e a tratti torbido e avventuroso e una protagonista che diviene una sorta di Odisseo contemporaneo con una spruzzata di Ulisse di Joyce e di James Baldwin e Colson Whitehead.

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