“Anche un ministro deve avere dei margini riconoscibili di indipendenza“. Torna a parlare in pubblico, in un’intervista con domanda e risposta a Radio3, il ministro della Cultura Alessandro Giuli. Sono stati giorni di grande difficoltà dopo le dimissioni del suo capo di gabinetto Francesco Spano un po’ per i presunti conflitti d’interesse sollevati dalla puntata di Report che sarà in onda stasera un po’ per le pressioni dall’interno di Fratelli d’Italia che si sono trasformate anche in una sagra dell’insulto in qualche occasione più privata (“pederasta” ha scritto un dirigente romano su una chat). Giuli torna nel dibattito pubblico non in televisione né sui giornali più diffusi ma su Radio3, la radio della cultura della Rai, ai microfoni di La lingua batte, il programma condotto dallo scrittore Paolo Di Paolo che si occupa dello stato e dell’evoluzione della lingua italiana nei suoi vari aspetti, anche a fronte delle accelerazioni tecnologiche. Dice Giuli: “Anche un ministro deve avere dei margini riconoscibili di indipendenza, soprattutto nella misura in cui esprime, seppure nelle vesti istituzionali, tutti gli intellettuali – che lo vogliano o no anche Scurati o Saviano – ma nella misura in cui si fa espressione di un governo il cui partito di maggioranza ha il 30% deve esserci spazio per una destra progressiva, non reazionaria, allergica a qualsiasi lacerto di nostalgia, perché in quel 30%, per fortuna dico io, c’è una maggioranza che deve riconoscersi nella Costituzione, ed è la linea invalicabile. Questo è chiaro anche al presidente del Consiglio che mi ha voluto qui, altrimenti non ci sarei io qui”. Un messaggio lanciato nell’etere perché nuora intenda, a prescindere da chi sia la nuora. Di sicuro risuona il retroscena di Antonello Caporale pubblicato ieri dal Fatto Quotidiano – e non smentito – con le parole che il ministro ha detto un amico: “Mica andrei via di notte? Mica pensano che mi dileguo con le tenebre?”.
Proprio oggi, su Repubblica, ha detto la sua anche Emanuele Merlino, capo della segreteria tecnica del ministero e indicato dalle ricostruzioni dei giornali – a torto o a ragione – come una delle figure che hanno “reso difficile” la vita a Giuli. Lui, Merlino, nega: “Che veniamo da mesi complicati non credo sia un segreto – dice -. Ma all’interno del gabinetto, che è quello che meglio conosco, non c’è alcun tipo di guerra. Anzi, il clima è di grande concordia. Poi certo, ognuno può raccontarla come vuole”. Il capo segreteria sottolinea che conosce il ministro “da molto tempo” e “da prima che diventasse il mio capo”. “Abbiamo un dialogo quotidiano e un rapporto solido. Questa è la verità, anche se i giornali si divertono a scrivere e sostenere il contrario” insiste. Quindi, gli viene chiesto, non è lei l’uomo delle trame contro Giuli? “Non diciamo sciocchezze – risponde -. Io lavoro per il ministero e per il mio ministro, lealmente, come ho sempre fatto”. E alla domanda se Giuli andrà avanti in piena autonomia replica: “Ma scherziamo? Certo che andrà avanti. E non c’è nessun tentativo di commissariamento. Io e Alessandro ci confrontiamo tutti i giorni, condividiamo i dossier e poi decide lui, naturalmente”.
Nell’intervista a Radio3 il ministro Giuli provoca anche un po’ la politica di professione quando gli vengono ricordate le reazioni ad alcuni brani dei suoi discorsi, diventati materiale anche della parodia di Maurizio Crozza e delle battute di Geppi Cucciari. Ma Giuli mette nel bersaglio i parlamentari: “Il grado di complessità è direttamente proporzionale all’interlocutore che hai – spiega alla radio – Se parli con parlamentari che hanno voluto essere sistemati nelle commissioni Cultura di Camera e Senato, si presuppone che in un’ora, 27 secondi di citazione di testi complessi possano andare bene, la scommessa si può tentare”. “Poi – ha aggiunto – al di là della satira, se la risposta della politica è ‘non abbiamo capito niente’, se non hanno capito niente di quei 27 secondi la prossima volta eviterò, per il resto mi rifiuto di pensare che il mondo politico non sia in grado di cogliere messaggi elementari. La mia voleva anche essere una sollecitazione, per dire: esistono temi su cui dobbiamo attrezzarci anche con parole complesse, perché i temi sono complessi, e c’è un margine di sollecitazione sfidante nei confronti del mondo politico. All’Aquila qualche giorno fa ho utilizzato volutamente espressioni diverse, conosco l’alternanza dei registri, ma se siamo qui a parlare di questo tema, dell’eloquio di Giuli, che poi ha detto Renzi che lo adeguerà, è interessante, perché da anni nessuno si occupava di questo tema. Se non fosse accaduto, con tutte le imperfezioni del caso, noi oggi non saremmo qui a offrire al pubblico una cosa che non accadeva da anni, cioè cultura, comunicazione e politica che si guardano e provano a interagire”. Giuli chiede se, “dopo la stagione dei vaffa, il fatto che si ragioni su parole come apocalittismo“, sia da considerarsi “un arretramento o un tentativo di avanzare? C’è un livellamento verso il basso di cui tutti siamo complici”, dice ancora il ministro ricordando alcune dinamiche dei social. Si rifà, continua, al modello di Alberto Ronchey (ministro nei governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi): “Continuo a pensare che la cosa che mi riesca meglio sia studiare, più che parlare. Oggi probabilmente c’è un livellamento verso il basso di cui siamo tutti complici, come accade sui social. Io alla fine dell’intervento alle Camere ho sottolineato la centralità del Parlamento: è importante che siano i politici a mettere a tema gli argomenti fondamentali, come l’intelligenza artificiale”. “Credo che il mondo accademico sia tenuto a tenere un linguaggio complicato – insiste Giuli -, mentre il mondo politico è chiamato a semplificare, il tema però e sempre trovare un punto di equilibrio tra eccesso di sofisticazione” e un linguaggio accessibile. “Sono una persona che proviene dal mondo della cultura e che si è messa al servizio; se cercassi clientele politiche di basso profilo mi costringerei a usare un altro registro ma non è quello che mi interessa”.
Sul suo intervento si sofferma riflettendo che “probabilmente è il circo giornalistico, di cui facevo e tornerò a far parte, che ha preferito motteggiare piuttosto che soppesare, è più facile, fa più click”. Ma come? Dopo trent’anni in cui la politica vincente è stata quella della semplificazione, da Berlusconi alle destre di oggi appese agli slogan diretti e netti? “La politica deve sempre semplificare – risponde Giuli – ma tra politici dovrebbe esserci quel livello di comunicazione adeguato e tale anche da influenzare il giornalismo, non viceversa. La politica dovrebbe evitare di prestarsi alla macchiettizzazione, per un verso o per l’altro”. E rimarca la distanza con quella “filosofia del vaffa che ha dominato in Italia condizionando un po’ tutti” e che è stato però successivo, in ordine cronologico, al crinale della discesa in campo del leader di Forza Italia.