Il governo ha scoperto le carte e ha presentato, con un certo ritardo rispetto agli annunci, il testo completo della legge di bilancio per il 2025. Con un debito pubblico che fra qualche mese arriverà alla quota non solo psicologica dei 3.000 miliardi, uno si poteva aspettare un deciso intervento, come quello che ha in mente il primo ministro francese Michel Barnier, per rimettere a posto la finanza pubblica. Invece l’ottimista Giorgetti punta sulla “intonazione positiva” per l’economia della nuova finanziaria. Intonazione positiva significa creare nuovi debiti. Dalla relazione di accompagnamento leggiamo che il peggioramento tendenziale (il nuovo debito) sarà di 8,2 miliardi per il 2025, di 19,5 per il 2026 e per il 31,3 miliardi per il 2027, con un incremento dunque esponenziale. Meloni nell’anno che precede le elezioni dovrà trovare 31 miliardi, sempre che sia ancora al governo naturalmente e che non si verifichi l’effetto Berlusconi del 2011.
Da dove proviene questa deriva debitoria scritta nero su bianco e quindi non smentitile? Semplicemente dal fatto che mentre le spese sono consolidate, le entrate sono spesso occasionali e una tantum. Una pratica finanziaria che sarebbe da evitare con un fardello del debito al 139,9% del Pil. Per quanto riguarda i contenuti, il governo Meloni prosegue nella sua strategia elettorale di costruire una finanziaria a somma zero dal punto di vista sociale, secondo lo schema di una cinica contabilità elettorale (chi mi conviene favorire e come?). Poiché non ci sono nuove risorse, la manovra da 29,7 miliardi porterà soldi a qualcuno e li toglierà a qualcun altro. Abbiamo già visto che quasi il 30% della manovra 2025 è a debito e quindi un primo pezzo sarà pagato dalle generazioni future.
Venendo al presente, dal lato del segno più di questa cinica partita doppia sociale della destra-destra troviamo soprattutto due categorie: i lavoratori dipendenti con redditi fino a 40.000 euro e i contribuenti dell’Irpef fino a 75.000 euro. Per i primi la legge stanzia ben 13 miliardi che corrispondono a circa 80/90 euro nette al mese. La fiscalizzazione degli oneri sociali del lavoratore viene resa definitiva e trasformata in una detrazione fiscale secca, sul modello del bonus Renzi. Quindi fa il suo ingresso trionfale nella finanza pubblica anche il bonus Meloni, circa 1000 euro annuali che ovviamente sono molto graditi e alzano il reddito disponibile. Questo bonus è accolto con molto favore anche dalle imprese che così possono smorzare le richieste di aumenti salariali. Qui la logica è palesemente clientelare ed elettorale. Lo stesso vale per l’accorpamento delle aliquote dell’Irpef, rese definitive nella triade del prof. Leo. In questo caso il costo è più modesto, si fa per dire, pesando per 4,8 miliardi nel 2025. Buone notizie per tutti o quasi tutti allora?
Vediamo ora i capitoli con il segno meno, cioè chi paga il salarietto di stato della Meloni e la gratifica dell’Irpef. Non potendo un governo no tax usare le imposte, è inevitabile che si proceda con tagli e operazioni finanziarie tanto fantasiose quanto ridicole. Ricomincia più forte che mai la stagione della spending review e della finanza creativa, che si sperava del tutto dimenticata. La spada del Mef si abbatterà soprattutto sulla spesa ministeriale, 5,2 miliardi in meno nel 2005 (e 8 negli altri due) e sugli enti locali e simili per altri due miliardi inizialmente. Poi il/la premier Meloni colpirà duramente la sanità il cui stanziamento, 1,3 miliardi, è modestissimo e non copre minimamente l’inflazione (ma che diventa di 8,9 miliardi nel 2030 con un miracolo della politica). Molto poco è previsto, quasi nulla, per il recupero dell’inflazione nel pubblico impiego degli anni passati. Il misero incremento del 6% finora concesso ha recuperato appena un terzo della perdita del potere di acquisto. Verrebbe da dire, passata la festa, gabbato lo santo. Quindi sono i servizi pubblici, e in definitiva anche i cittadini, a pagare l’inevitabile scotto della insensata furia no tax.
Sul fronte della finanza creativa, quello più pericoloso dal punto di vista contabile, troviamo due principali interventi. Uno del tutto fantasioso, ma che vale 5,2 miliardi, che si intitola “utilizzo di fondi per interventi in materia fiscale”. Qui dovrebbero finire i soldi dei vari condoni e altre voci, compresi alcuni finanziamenti europei. La credibilità di questa posta, molto confusa, è del tutto dubbia. Il secondo è una new entry, un contributo delle banche per il 2025 e 2026 di 3,4 miliardi ogni anno. Non si tratta di tassare le banche ma lo stato chiede, come i privati cittadini, un prestito. Su questa curiosità fiscale magari ritorneremo con un altro commento. Il prestito che Meloni chiede dovrà essere restituito nel 2027.
Si può notare subito l’assurdità di questo intervento che, di fatto, va a finanziare lo sconto dell’Irpef. Bisognerebbe ricordare allora ai cittadini che la modesta riduzione dell’Irpef è generosamente finanziata dalle banche e dovrà essere restituita fra un paio di anni. Quindi la stagione della finanza meloniana 2025 è pagata in parti eguali da nuovo debito, tagli di spesa e interventi finanziari strani, nel senso di Tim Walz. Questo non solo per il 2025, ma anche per il biennio successivo disegnando una traiettoria veramente preoccupante e piena di punti interrogativi.
In definitiva, abbiamo di fronte una finanziaria che incrementa scioccamente il debito pubblico, che illude milioni di cittadini con un altro salarietto di Stato, che taglia drasticamente i servizi pubblici essenziali, che inventa delle voci creative e che ha bisogno dell’aiutino delle banche.
Una finanziaria ancora a trazione demagogico-elettorale molto peggiore delle precedenti perché i problemi ancora una volta sono solo spostati in avanti senza nessun senso di realtà. Probabilmente come diceva Rossella O’Hara nel celebre film Via con Vento non c’è da preoccuparsi del futuro perché “Comunque, domani è un altro giorno”, e qualcosa la triade Meloni-Giorgetti-Leo di sicuro si inventerà anche nel 2026 e 2027 per prendere in giro gli italiani una volta di più. Non vorrei però che questa commedia farsesca improvvisamente si trasformasse in tragedia, non solo economica ma anche sociale. I presagi ci sono tutti.