In questi anni sono cresciute di numero e importanza le climate litigation. Definire con precisione cosa sia o non sia una climate litigation non è semplice: al riguardo si può tenere come riferimento la definizione usata nei suoi report dal Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment della London School of Economics, che a sua volta si basa su quella proposta dal Sabin Center for Climate Change Law della Columbia University di New York, due istituti di ricerca fra i principali al mondo (se non i maggiori in assoluto) nel campo delle climate litigation. In ogni caso, per semplicità possiamo definirle cause fondate su questioni climatiche.
Ho grande simpatia per le climate litigation perché credo che, sia quando vengono vinte (cioè si risolvono, anche qui per semplificare, con una vittoria per gli attivisti per il clima che le hanno promosse), sia quando vengono perse, rendano un ottimo servizio alla lotta contro il collasso climatico. Ad esempio perché obbligano a parlarne, specie quando coinvolgono pezzi da novanta come BigOil. Del resto ci sono studi che confermano che le climate litigation hanno impatto comunque.
Il fenomeno riguarda oggi praticamente tutto il mondo, con una varietà di casi, strategie e soggetti interessati in crescita. Non è più solo un fenomeno legato agli Stati Uniti, cioè, dove esso è nato e resta più diffuso. In Italia l’era delle climate litigation è stata aperta da due iniziative. La prima è il “Giudizio Universale” che ha citato appunto in giudizio lo Stato italiano per inadempienza climatica. La seconda è “La giusta causa”, con cui ReCommon e Greenpeace insieme a cittadini e cittadine italiani chiedono che si accertino le responsabilità di Eni, e di MEF e CDP, per i danni ai cittadini derivanti dalla crisi climatica.
All’inizio le climate litigation prendevano di mira gli Stati. Poi hanno cominciato a guardare al mondo corporate, dove c’è tanta gente che continua a pensare e agire come se il business as usual potesse durare, nonostante il collasso climatico sia sotto gli occhi di tutti. Ora nell’orbita delle climate litigation iniziano a entrare anche gli attori finanziari. Come ad esempio le banche, specie le più grandi.
A confermarlo è uno speech diventato celebre fra gli addetti ai lavori in pochissimo tempo (risale solo a poco più di un anno fa, inizio settembre 2023). Il discorso è stato pronunciato da Frank Elderson, membro del board della Bce. Stracolmo di riferimenti, per cui utilissimo per studiosi e appassionati della materia, ha lanciato un messaggio semplice e chiaro: è arrivato anche per le banche il momento di guardare con estrema attenzione e di cercare di capire come gestire il rischio derivante dalle climate litigation, o meglio i rischi di essere oggetto di contenziosi legati al clima e all’ambiente. Perché, “come hell or high water” (succeda quel che succeda), chi avvia le climate litigation sta cominciando a dare la caccia alle banche. È qualcosa che sta accadendo ed è inevitabile che continuerà ad accadere.
Va sottolineato che questo signore è stato il primo chairman del Network for Greening the Financial System, forse il network più importante al mondo nell’ambito della finanza green. Anche se, dato che come diceva quello “le parole sono importanti”, qui non si parla tanto di finanza green – che oggi annega nel greenwashing – ma di rendere green tutto il sistema finanziario, obiettivo diverso ed evidentemente molto più vasto e importante. È il network più importante perché, partito in sordina a fine 2017, oggi raggruppa praticamente tutte le banche centrali dei principali Paesi del mondo (comprese Bankitalia, la Fed, la Bce) e le authority dei mercati (c’è Esma, ma non c’è Consob). E da qualche anno ha preso a studiare molto da vicino la questione delle climate litigation, producendo numerosi rapporti. Quindi si tratta di una persona che non l’ha buttata lì, non voleva solo usare un’espressione a effetto: sa benissimo ciò di cui sta parlando. E perché ne sta parlando.
In chiusura del suo speech, inoltre, Elderson dice alcune cose che a mio avviso spiegano chiaramente perché le climate litigation possono essere determinanti nella lotta contro la crisi climatica. Parlando dei lawyer, Elderson dice in sostanza che gli avvocati – non tutti, evidentemente, ma sempre di più – oggi sono a supporto della transizione, di quello che Elderson chiama un mondo allineato agli obiettivi del Paris Agreement; che la loro azione, le loro “penne”, possono mettere in moto quelle dei giudici; e che i giudici con le loro decisioni possono produrre veri cambiamenti. Per cui si può leggerla così: chi attiva gli avvocati su temi legati al clima, cioè chi avvia delle climate litigation, può arrivare a produrre vero cambiamento.
Allora non resta che dire: climate litigation, climate lawyer, climate litigants di tutto il mondo, unitevi! Ce n’è urgente, drammatico bisogno.