Diritti

In carcere ma da star di Tiktok: non chiamatele più baby gang

Sbarre di ferro che diventano cornici di TikTok. Una mano che stringe un cellulare di contrabbando, un Maranza che sfoggia la sua tuta firmata nel corridoio di un carcere italiano, mentre il suo ultimo video raccoglie migliaia di visualizzazioni. Benvenuti nel carcere del 2024, dove le celle si trasformano in set improvvisati e i detenuti, tra minori, giovani e vecchi adulti, si sfidano a colpi di followers. Video che trasformano la detenzione in una farsa social. Scene spesso ricreate, ma non per questo meno pericolose, in una spirale perversa che sta contagiando le carceri della penisola.

Le nostre strade sono diventate il palcoscenico di una generazione persa tra like e manette, dove ogni pestaggio è una storia in evidenza, ogni rissa una diretta streaming, ogni goccia di sangue un trend potenziale.

Non chiamatele più baby gang – sono content creator della violenza, influencer della brutalità che trasformano il dolore altrui in engagement. Si organizzano su gruppi Telegram criptati, pianificano le aggressioni come fossero video musicali, scelgono le location come set cinematografici. La violenza diventa una coreografia studiata, il sangue un effetto speciale, le grida di dolore una colonna sonora. I loro profili Instagram sono gallerie dell’orrore: pestaggi in loop, umiliazioni trasformate in challenge virali.

Quando le manette scattano, il gioco non finisce – si trasforma. Il carcere diventa l’ultimo stage di un reality show perverso, dove ogni storia di violenza è un capitolo di una serie che accumula visualizzazioni. I muri della cella come quinta teatrale per dirette clandestine, mentre fuori i follower crescono e la notorietà esplode. Anche nei corridoi delle carceri minorili, smartphone nascosti catturano la quotidianità della detenzione, tra sfottò agli agenti e atti di bullismo, trasformando tutto in contenuti virali che ispirano altri giovani a emulare le gesta dei loro anti-eroi digitali.

La vita dietro le sbarre viene romanzata e nessuno mostra le frequenti crisi di panico notturne, le lacrime nascoste dai filtri Instagram. Gli psicologi del carcere (pochissimi) osservano impotenti mentre i detenuti oscillano tra due mondi: quello reale fatto di privazioni e quello virtuale dove sono star dei social. Famiglie disperate cercano di comprendere come i loro figli siano passati dal condividere video innocenti a documentare pestaggi, come la ricerca di popolarità si sia trasformata in fedina penale. I social media hanno creato una nuova forma di criminalità giovanile, dove la violenza è solo il mezzo per ottenere quella dose di attenzione digitale che crea dipendenza quanto una droga.

La strada verso la riabilitazione è compromessa dalla continua connessione con quel mondo virtuale che li ha portati in cella e anche dopo l’uscita dal carcere, il richiamo della notorietà è più forte di qualsiasi trattamento rieducativo. I tassi di recidiva raccontano di giovani che tornano a delinquere non per necessità ma per mantenere vivo il proprio personaggio social e continuare a provare l’emozione di essere rivisto e rivedersi, emozioni prive di sentimenti, in un ciclo perverso che si autoalimenta.

Nei corridoi delle carceri italiane si consumano scene studiate per infangare i poliziotti e tutto il personale: video costruiti ad arte che denunciano presunte violenze mai avvenute. Le vittime diventano carnefici nella narrazione distorta dei social, mentre gli agenti si trovano sotto processo nell’arena mediatica. Il fenomeno dilaga tra le celle: fake news orchestrate, violenze inventate, accuse infondate – tutto per qualche migliaio di visualizzazioni in più.

Le istituzioni brancolano nel buio davanti a questa deriva, incapaci di arginare una marea montante dove la ricerca di notorietà calpesta ogni regola ed etica. Occorrerebbero risposte nuove ad una minaccia inedita e non basta più ripensare soltanto il sistema carcerario (che già sarebbe un agire in penoso ritardo), in quanto è l’intero rapporto tra giovani e social media che va rifondato alle basi, perché questa spirale di sangue e like, di violenza vera e teatrale, sta divorando il futuro di un’intera generazione e con essa sta corrodendo le fondamenta stesse della nostra società.