Economia & Lobby

Rapporto: ceto medio spremuto, il 15% paga il 64% delle tasse (ma la colpa è degli stipendi bassi e dell’evasione tra gli autonomi)

I contribuenti che in Italia dichiarano almeno 35mila euro sono circa 6,4 milioni, il 15,27% del totale, ma pagano il 63,4% delle imposte mentre quelli che dichiarano meno di 15mila sono poco meno di 17 milioni (il 40,35% del totale) e pagano l’1,29% dell’Irpef complessiva. È quanto si legge nel Report di Itinerari previdenziali sulla spesa pubblica e le dichiarazioni dei redditi 2022 presentato oggi alla Camera. “Il 75,8% dei contribuenti dichiara redditi da zero fino a 29mila euro, si legge, corrispondendo solo il 24,43% di tutta l’Irpef, un’imposta neppure sufficiente a coprire la spesa sanitaria”.

Fin qui i numeri presentati che però, come ben sa ogni statistico, possono essere “torturati” per far loro dire qualunque cosa. Che la pressione fiscali sui ceti medi in Italia sia alta, non tanto in valori assoluti ma in rapporto al livello dei servizi che ricevono, è indubbio. Ma sul perché i contribuenti inclusi in questa fascia siano relativamente pochi e sulla congruità delle aliquote che gravano sui più abbienti il dibattito è aperto.

Naturalmente l’evasione ha un ruolo chiave e, altrettanto naturalmente, l’evasione non riguarda i lavoratori dipendenti, se non in una quota irrisoria. Il fatto che molte dichiarazioni dei lavoratori autonomi siano sotto dimensionate fa sì che un numero significativo di contribuenti sia sottoposto ad aliquote pensate per chi ha davvero poche risorse, anche se, in realtà, ne dispone di ben più consistenti. Questa è una prima grave distorsione. Se i redditi fossero correttamente dichiarati, si allargherebbe la platea a cui vengono applicate aliquote più alte e ciò darebbe maggiori margini per ridurle.

Gli stipendi italiani sono inoltre tra i più bassi d’Europa. Ciò fa sì che le fasce di reddito più alte rimangano particolarmente sguarnite e che da lì provenga un gettito relativamente modesto, costringendo a cercare più denaro nei gradini sottostanti. Storicamente le aliquote su chi guadagna davvero molto sono basse e si sono gradualmente appiattite nel corso degli ultimi decenni. Val sempre la pena ricordare che, nel secondo dopo guerra, non in Unione Sovietica ma negli Stati Uniti, si arrivò ad imporre un prelievo del 90% sui redditi più elevati. In Italia si giunse “solo” al 70% per poi scendere fino all’attuale 43%. Ma soprattutto questa aliquota si applica a partire dai 50mila euro lordi all’anno in poi, accomunando stipendi di 3mila euro netti al mese a redditi da centinaia di migliaia di euro ed oltre.

I veri ricchi, che ogni tanto si divertono ad auspicare aliquote più alte per loro stessi, hanno facilmente la possibilità di spostare ricchezze e guadagni altrove, sottraendole ai prelievi. Infine, gli investimenti in attività finanziarie, concentrati nella quasi totalità, nelle fasce alte di reddito, sono tassate con aliquote inferiori rispetto a quelle applicate ai redditi da lavoro. E questa è un’altra distorsione alla base degli squilibri nella distribuzione dei carichi fiscali denunciati da Itinerari previdenziali.

In definitiva, esiste una fascia di contribuenti che sta tra l’incudine e il martello e gioco forza deve sopportare la gran parte del carico fiscale. Ma il rimedio non sembra essere quello di alzare le tasse a chi guadagna meno o abbassarle a chi guadagna di più, quanto piuttosto di contrastare la diffusa evasione e di rafforzare la progressività del prelievo come previsto in Costituzione.

Le parole del curatore del Rapporto Alberto Brambilla sono quindi in parte condivisibili ed in parte fuorvianti. “Non è corretto, sottolinea Brambilla, descrivere l’Italia come un Paese oppresso dalle tasse, poiché i contribuenti su cui grava il carico fiscale. Una grande parte di italiani ne paga così poche o non ne paga affatto da risultare totalmente a carico della collettività. È il ritratto di un Paese con una forte redistribuzione principalmente a carico dei redditi sopra i 35mila euro lordi l’anno, che peraltro non beneficiano, se non marginalmente, di bonus, sgravi e agevolazioni, in assenza di controlli su una spesa assistenziale che cresce a tassi doppi rispetto a quella previdenziale”. Tuttavia, già il semplice fatto di accomunare tutto ciò che esiste dai 35mila euro, siano 36mila o un milione, sembra piuttosto azzardato.