La deposizione di Filippo Turetta ha aperto un dibattito complesso tra giuristi e nell’opinione pubblica, toccando temi che vanno oltre la responsabilità individuale per coinvolgere dinamiche culturali profonde, come quelle legate al patriarcato.

In un contesto giudiziario, ogni parola e gesto dell’imputato sono scrutati attentamente: capire se l’azione di Turetta sia il frutto di una scelta autonoma o il risultato di un condizionamento culturale diventa cruciale. Analizzare una deposizione significa decifrare non solo le parole, ma anche la costruzione complessiva dell’atto comunicativo. Il linguaggio del corpo e il tono delle risposte possono rivelare rimorso, tentativi di giustificazione o minimizzazione, o ancora segnali di una personalità influenzabile. Tali aspetti sono essenziali per delineare un profilo comportamentale e valutare la responsabilità dell’individuo, con implicazioni decisive per la strategia difensiva e l’accusa.

Dal punto di vista processual-penalistico, la deposizione assume un ruolo chiave nella qualificazione del reato e nella determinazione della responsabilità. Le dichiarazioni di Turetta e i dettagli emersi possono fornire elementi utili a stabilire l’elemento soggettivo del reato, come il dolo o la premeditazione, influenzando anche la presenza di aggravanti o attenuanti, come pure una ridotta capacità di intendere e volere richiederebbe prove solide per essere accolta. L’analisi delle sue parole può anche rivelare elementi di premeditazione o crudeltà che influiscono direttamente sull’entità della pena. Se emergessero (come sembra) dettagli che indicano una pianificazione dell’atto, tali elementi potrebbero far ricadere l’accusa in una categoria più grave, aumentando la severità della condanna.

La domanda centrale a mio avviso è: Turetta ha agito con piena consapevolezza e determinazione, oppure è stato influenzato da un sistema di valori che ha alterato la sua percezione e la sua colpevolezza? Vorrei qui richiamare il pensiero di Pietro Abelardo, filosofo medievale che poneva l’intenzione come fulcro della moralità, perché ci spinge a riflettere su quanto un sistema culturale patriarcale possa distorcere la percezione di chi ne fa parte, legittimando comportamenti violenti o possessivi. Per Abelardo, non è l’azione in sé a essere moralmente rilevante, ma l’intenzione con cui viene compiuta.

Questo apre una riflessione importante: quanto un sistema culturale che normalizza atteggiamenti di controllo può influire sull’intenzione e, di conseguenza, sulla colpevolezza? Il patriarcato, infatti, influenza profondamente i ruoli e le dinamiche di potere, e questo può portare le persone a interiorizzare comportamenti di possesso e controllo come espressioni accettabili di affetto. Associare il tema dell’intenzione con il patriarcato, nell’interpretazione di un caso come quello di Filippo Turetta, ci porta a esplorare come certi atti possano essere influenzati non solo dalle motivazioni individuali ma anche dai condizionamenti culturali e sociali. In un contesto patriarcale, le intenzioni degli individui possono essere plasmate da norme, valori e stereotipi che giustificano o alimentano specifici comportamenti, soprattutto nei confronti delle donne.

Per questo, se analizziamo il concetto di intenzione di Abelardo alla luce del patriarcato, emergono domande complesse: quanto un sistema culturale che tende a giustificare o tollerare atteggiamenti di possesso e controllo può distorcere le intenzioni di chi cresce e vive in esso? In un contesto patriarcale, le persone possono interiorizzare ruoli di genere che normalizzano il possesso o la prevaricazione. Ciò significa che l’intenzione di un soggetto potrebbe non essere completamente autonoma, ma condizionata da una cultura che legittima certi comportamenti, come la gelosia o la necessità di dominare il partner.

Per Abelardo l’ambiente culturale può incidere profondamente su ciò che una persona percepisce come moralmente giusto o accettabile. In un contesto patriarcale, un individuo potrebbe legittimare – anche inconsapevolmente – comportamenti violenti o possessivi come una manifestazione di affetto o di “protezione.” Questo solleva un interrogativo abelardiano di fondo: se l’intenzione è condizionata da un sistema di valori distorto, quanto possiamo considerarla davvero “libera”? Quanto sono davvero liberi questi maschi che si comportano così? E ciò mette in discussione anche l’idea stessa di responsabilità individuale.

Una giustizia ancora più moderna, allora, che da retributiva e poi riparativa divenisse trasformativa, dovrebbe considerare non solo l’intenzione individuale, ma anche il ruolo della società nel formare tali intenzioni. Questo non significa annullare la responsabilità che è personale, ma riconoscere che l’atto è anche il risultato di un fallimento collettivo, quello di non aver sfidato e trasformato un sistema culturale radicato.

In un caso come quello di Turetta, riposizionando la lente, la giustizia non si limiterebbe a punire con durezza l’atto, ma cercherebbe di intervenire sulle cause culturali, favorendo un cambiamento profondo. Ecco perché la sentenza su Filippo Turetta, al di là della severità con cui sarà formulata, rappresenta un’opportunità per il sistema giudiziario di indicare la strada verso una società più equa e consapevole. Come osservava Pietro Abelardo, la vera giustizia è quella che comprende l’intenzione e cerca di trasformare l’animo umano, un principio che, sebbene antico, resta di straordinaria attualità.

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