Media & Regime

Il Washington Post non sostiene Harris: la scelta di Jeff Bezos tutela il giornale o i propri affari?

Jeff Bezos ha deciso che il giornale di sua proprietà, The Washington Post, non darà più endorsement presidenziali, interrompendo una tradizione che andava avanti da decenni. Questo da subito, bloccando l’editoriale già pronto a sostegno della candidata democratica Kamala Harris.

Analizzando la storia del Washington Post e alcune notizie recenti relative al candidato opposto alla Harris, Donald Trump, le motivazioni di una decisione del genere possono essere tre: gli endorsement ai candidati fanno perdere la fiducia dei lettori; Kamala Harris non convince il WP come candidata alla presidenza degli Stati Uniti; Bezos vuole tutelare i suoi rapporti personali con Trump, temendo ripercussioni suoi suoi affari in caso di vittoria del tycoon.

Analizziamole insieme per farci un’opinione.

Bezos in persona ha giustificato, in un suo editoriale sul Post, la decisione di bloccare l’endorsement come una mossa per migliorare la credibilità del giornale, riducendo le percezioni di parzialità politica e rafforzando la fiducia del pubblico: “Ciò che gli endorsement presidenziali fanno è creare una percezione di parzialità. Una percezione di mancata indipendenza”, ha scritto.

Ogni giornale attraverso i suoi editorialisti esprime opinioni politiche. Il fatto che il Washington Post non abbia pubblicato un endorsement per la Harris non significa che il giornale, di fatto, non la supporti. Lo dimostrano gli editoriali dei giornalisti e la storia dello stesso giornale, da decenni schierato coi democratici. Lo dimostrano le dimissioni di Robert Kagan, redattore capo ed editorialista politico di punta del Washington Post, a seguito della decisione di Bezos.

A non supportare la Harris dunque non è la redazione del WP. È Jeff Bezos. Metterci la faccia, con il suo intervento sul giornale a difesa dell’inversione di rotta sugli endorsement, prendendosi le responsabilità di questa decisione, lo mette in chiaro. I suoi discorsi sull’indipendenza di un giornale che si dimostra non facendo endorsement non possono essere la motivazione reale del gesto, guardando alla storia del Post. Bezos nel suo intervento ricorda Eugene Meyer, editore del Washington Post dal 1933 al 1946, contrario agli endorsement. Ma la storia del giornale è lunga e quella più recente ci dice che dal 1988 il Post non salta un endorsement, sempre a sostegno dei candidati democratici.

William Lewis, editore e amministratore delegato del Washington Post, si aggrappa pure alla storia del giornale per giustificare il cambio di rotta, che andrebbe letto come un ritorno alle origini. Il suo ragionamento è sottile e appare ancora più incoerente. Inizia così: “Il Washington Post non farà un’endorsement per un candidato presidenziale in questa elezione. Né in nessuna futura elezione presidenziale. Stiamo tornando alle nostre radici di non fare endorsement per i candidati presidenziali”. Neanche in futuro faranno endorsement, spiega. Ma ecco che usando la storia lascia uno spiraglio a possibili eccezioni. Lewis cita il Comitato Editoriale nel 1960, come fonte di ispirazione per un ritorno alle origini:

“Il Washington Post non ha ‘approvato’ nessuno dei candidati nella campagna presidenziale. Questo è nella nostra tradizione e in linea con le nostre azioni in cinque delle ultime sei elezioni. Le circostanze insolite dell’elezione del 1952 ci hanno portato a fare un’eccezione quando abbiamo appoggiato il generale Eisenhower prima delle convention di nomina e abbiamo ribadito il nostro sostegno durante la campagna. Con il senno di poi, continuiamo a ritenere che le argomentazioni per la sua nomina e elezione fossero convincenti. Ma il senno di poi ci ha anche convinti che sarebbe stato più saggio per un giornale indipendente nella Capitale della Nazione evitare un’endorsement formale.”

Poi, visto che la storia si deve raccontare tutta, Lewis è costretto a giustificare un’altra eccezione: “Questa era una posizione forte, ma nel 1976, per ragioni comprensibili all’epoca, abbiamo cambiato questa politica di lunga data e appoggiato Jimmy Carter come presidente. Ma prima avevamo ragione, ed è a questo che stiamo tornando.”

Due eccezioni negli anni in cui la linea era quella di non fare endorsement ai candidati presidenziali. La domanda spontanea è: a quando la prossima eccezione? È ovvio che sorgano dubbi quando si cerca di far passare l’incoerenza per coerenza.

Un’altra eccezione, come quella di oggi però, ovvero nel periodo degli endorsement liberi, ci fu nel 1988. A partire dal 1976, il Washington Post ha iniziato a sostenere regolarmente candidati durante ogni ciclo elettorale presidenziale, ma nel 1988 ha scelto di non fare alcuna raccomandazione nella competizione tra George H.W. Bush e Michael Dukakis (democratico). In quell’occasione, il Post non fece riferimento a una qualche antica tradizione di neutralità che improvvisamente, all’ultimo minuto, aveva deciso di riprendere; il suo editoriale di “Nessun Endorsement” si dilungava abbondantemente sui difetti di entrambi i candidati. “Nessuno dei due candidati ha dimostrato qualità per l’incarico che riteniamo convincenti. Quanto a un endorsement, entrambi, secondo i nostri standard, presentano difetti troppo profondi”, scrissero.

Questo potrebbe far pensare all’ipotesi che il WP non abbia fiducia nelle qualità della Harris. La decisione su Dukakis non fu di un proprietario come oggi, ma della redazione del giornale. Oggi i giornalisti della stessa testata non hanno manifestato perplessità sulla Harris. Lo avrebbero fatto, come all’epoca, con un editoriale, pubblicamente. Al contrario, hanno manifestato disappunto per l’imposizione di Bezos ad un nuovo “no endorsement”.

Torniamo dunque alle motivazioni di un singolo, Jeff Bezos. Se la storia dell’indipendenza tradizionale del giornale non convince e la redazione non vede sullo stesso piano Trump e la Harris, perché il miliardario del tech ha deciso di scaricare la candidata democratica?

Robert Kagan, l’editorialista di punta del WP dimissionario, ha un’opinione netta. Come ha riferito a Repubblica il 27 ottobre: “Un paio di giorni fa ha incontrato i dirigenti di Blue Origin, la compagnia di Jeff Bezos che fa attività spaziali e dipende dalle commesse dello Stato. Poco dopo il Washington Post ha annunciato che non avrebbe appoggiato alcun candidato alla Casa Bianca. È un chiaro caso di do ut des. In passato Trump ha attaccato molte volte Bezos, che ora si è piegato”.

Bezos nel suo editoriale ha respinto questa accusa. Ma è vero che l’ostilità reciproca con Trump, quando era presidente nel 2019, è costata cara a Bezos. Amazon ha affermato di aver perso un contratto da 10 miliardi di dollari con il Pentagono, per la fornitura di servizi per il cloud, a seguito delle pressioni di Trump, critico verso Bezos e il Post, per favorire la rivale Microsoft.

Come sappiamo, un altro big della space economy, Elon Musk, sostiene da tempo la campagna di Donald Trump. Il candidato repubblicano ha promesso pubblicamente di raggiungere Marte entro la fine del suo secondo mandato, se verrà eletto a novembre.

Tra le varie ipotesi, quella degli interessi aziendali di Bezos sembra la più credibile. Soprattutto perché a parlarne è un giornalista storico dello stesso Washington Post, oltre allo straordinario tempismo che sembra collegare l’incontro fra i manager di Bezos e la decisione di fermare l’endorsement. Se così dovesse dimostrarsi, insieme ai razzi finirebbe su Marte anche la credibilità di Bezos, oltre a quella del suo giornale, finché ne resterà il proprietario.