La scorsa settimana ho visitato una grande Casa Circondariale metropolitana del Nord del paese. La sezione cosiddetta “ex art. 32” era piena di ragazzini. L’articolo 32 del regolamento penitenziario afferma che i detenuti “che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele” vengano allocati in sezioni specifiche.

La sezione ex art. 32 di questa grande Casa Circondariale metropolitana è un lungo e cupo corridoio su cui si aprono minuscole celle claustrofobiche dal soffitto basso e le finestre piccole che fanno passare poca aria e luce. Le celle ospitano due o tre persone. Le peggiori sono quelle da due, che sono vuote di quasi tutto. Ci sono un paio di letti, vecchi e scrostati come le pareti, con sopra un materasso e delle lenzuola di carta che non sostengano eventuali gesti di impiccagione. Più o meno nient’altro.

Buttate sul pavimento, le mele conservate dal giorno prima e la maglietta di riserva per cambiarsi. Sulle pareti del corridoio, cibo appiccicato da chissà quanto tempo, pasta al sugo e zuppa tirata da dietro le sbarre come forma di protesta nella speranza di farsi ascoltare.

Mentre passavo per la sezione, da una cella è arrivato un grido di richiesta di aiuto. “Per favore, qui stiamo morendo”, ha urlato un ragazzino. Li ho guardati: lui e il suo compagno di stanza raggiungevano a stento i vent’anni. Probabilmente ne avevano diversi di meno. Posso immaginare che avessero “un comportamento che richiede particolari cautele”. Come tutti i ragazzi – figuriamoci quelli in gabbia, figuriamoci quelli che prima vivevano per strada, figuriamoci quelli con dipendenze, figuriamoci quelli senza genitori e figure di riferimento – saranno stati impulsivi, riottosi, rompiscatole.

Ho guardato i volti che si sporgevano dalle sbarre lungo il corridoio. Erano tutti giovanissimi, ragazzini da scuola superiore o poco più. Ragazzini che probabilmente fino a un anno fa si sarebbero trovati in un carcere minorile e che oggi sono mandati a morire nell’anima dentro un carcere ordinario.

Rispondendo a un’interrogazione parlamentare, il ministro Nordio ha recentemente raccontato che al 30 giugno 2023 c’erano 3.274 minori di 25 anni nelle carceri per adulti, mentre oggi sono 5.067. Un aumento mai visto, di oltre il 50%. Da dove arriva?

La legge italiana permette ai giovani che hanno commesso un reato da minorenni di permanere nei servizi della giustizia minorile – ben più accoglienti e capaci di un’attenzione individuale al singolo percorso di vita – fino al compimento del 25 anno di età. Una scelta che si era dimostrata vincente: la relazione educativa che si instaura tra il ragazzo e gli operatori ha bisogno di tempo, di essere portata avanti con continuità al fine di una vera reintegrazione sociale. Il cosiddetto Decreto Caivano del settembre 2023 ha invece facilitato enormemente l’invio dei ragazzi nelle carceri per adulti al compimento della maggiore età. E tale facilitazione sta venendo utilizzata a piene mani.

Le carceri minorili sono oggi sovraffollate: sempre il Decreto Caivano ha ampliato grandemente la carcerazione dei minorenni. Per fare spazio – o a volte per risolvere nel modo più facile ma più dannoso il problema di un ragazzo difficile – al compimento dei 18 anni i ragazzi vengono spediti in quella fabbrica di criminalità che sono le carceri per adulti.

E fine. Fine della relazione educativa fine del percorso intrapreso, fine della loro crescita, fine della reintegrazione sociale, a volte fine della loro vita. Un futuro chiuso in celle buie di pochi metri cubi. Senza scuola, senza un libro, senza un dialogo con un adulto di riferimento. Solo mele per terra e cibo spiaccicato alle pareti.

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