Una premessa: lo sci alpino agonistico è uno sport pericoloso e chi lo pratica lo sa. Il rischio zero non esiste e non esisterà mai per la sua stessa natura, che una persona più brava di me ha definito come il “tentativo di governare gli sbilanciamenti”. Sugli sci si è letteralmente appesi a un filo, mentre il terreno che hai sotto i piedi cambia in continuazione. A cinquanta all’ora come ai centotrenta.
La morte di Matilde Lorenzi è stata una tragedia. Una tragedia per la sua famiglia, per chi le voleva bene, per il movimento dello sci. Ma non una fatalità. Conosco la pista sulla quale si stava allenando – perché anche io mi ci sono allenato, e lì 13 anni fa ho sostenuto le prove finali per diventare maestro di sci – e ho visto il punto esatto in cui è caduta. Un tratto semplice, dove il pendio si fa più dolce, a poche centinaia di metri dalla partenza della seggiovia che ti riporta in quota, e nel quale, durante un allenamento di slalom gigante, è sostanzialmente impossibile superare i 50 chilometri orari.
Dopo l’incidente si è letto di tutto sui giornali. L’allenatore che la stava seguendo in pista, addirittura Lorenzi che stava scendendo fuori dai pali, in quello che in gergo si chiama “sciare in campo libero”; si è letto di una spigolata, del volto che ha battuto sulla “neve ghiacciata” e di reti poste a protezione della pista. Col passare delle ore, però, sono venuti fuori dati più aderenti alla realtà.
Intanto che Lorenzi si stava allenando nel tracciato di slalom gigante, che tra la selva di porte disseminate lungo il pendio (che spesso confondono gli atleti e che quanto meno fungono da elementi di distrazione) l’atleta azzurra era impegnata in quello più vicino al fuori pista (o in quello immediatamente successivo); che ha perso il controllo degli sci, probabilmente inclinandosi troppo all’interno della curva, come succede decine di volte, se non centinaia, nel corso della carriera di un’atleta; che la neve non era ghiacciata e che, soprattutto, ha fatto un volo nel fuori pista, il cui bordo non era delimitato dalle reti (non in quel punto preciso).
Dalle immagini catturate dalla webcam – o da quelle girate il giorno successivo – si nota come il fuori pista sia più ribassato rispetto alla pista. Dal bordo parte una costa ripida, perpendicolare al pendio degli allenamenti, in fondo alla quale è finita la corsa della giovane sciatrice. Tra il punto della caduta e la pista, insomma, c’è un dislivello di qualche metro.
Detto che gli inquirenti hanno già escluso responsabilità penali da parte di chicchessia, è facile stabilire che protezioni idonee, messe in quel punto, avrebbero impedito il salto di Lorenzi e l’impatto col terreno.
Se vogliamo allargare il discorso, ci sarebbe da chiedersi se sia così sicuro far allenare decine di squadre e sci club sullo stesso pendio, con le porte a pochissime metri l’una dall’altra (sì, si è sempre fatto, così come prima dell’avvento del casco se n’era sempre fatto a meno). E se lo vogliamo allargare ancora, in prospettiva, bisognerebbe mettere insieme il fatto che in Svezia, in quei giorni, faceva così caldo che Lorenzi, anziché partire per la Scandinavia, è rimasta in Val Senales, e che lo spazio per gli allenamenti extra-invernali, sulla neve europea, si ridurrà sempre di più. “Le condizioni di sicurezza non c’erano per niente”. Lo ha detto l’ex Valanga azzurra, e noto commentatore tv Paolo De Chiesa. Che ha aggiunto: “C’è tanta omertà, nessuno parla”. Difficile dargli torto.