In esclusiva per FqMagazine, l'intervista a Claudia Sartori, ex agente cinematografica che negli anni '60 lavorava con Sergio Leone e scoprì Clint Eastwood, consegnandolo al successo planetario
“Un caffè, grazie”.
“Per me è tardi, io prendo un succo d’ananas”, sorride Claudia.
“Subito, signora”, risponde il barista. “Ve li faccio portare al tavolo”.
Attorno, Piazza di Pietra scintilla nel sole di ottobre come incisa su una coppa di vetro, striata d’oro, limpida e bianca.
Sulla sedia di fronte, gli occhi verde giada di Claudia Sartori stanno al mondo come fa il centro di Roma: immuni alle ingiurie del tempo.
“Eh, magari. Ho 88 anni, la memoria non è quella di una volta”, sorride.
Per un pugno di dollari quest’anno ne ha compiuti 60 e Clint Eastwood a 94 sta per uscire anche in Italia con il suo ennesimo film da regista, Giurato numero 2.
Non fosse stato per lei, non staremmo qui a parlare di nessuna delle due cose.
Guardi, è passato tanto tempo. Ma credo che sia proprio così.
Era il 1964.
Allora facevo l’agente cinematografica. Ero tornata da poco da Parigi dove avevo fatto l’indossatrice. Lavoravo per Pierre Balmaine. Facevamo due sfilate al giorno, una al mattino e una al pomeriggio. Ero andata lì perché in Italia volevano solo ragazze da un metro e ottanta. Ma anche per la Francia ero minuta, piccolina in confronto alle stanghe che mi giravano attorno. Così ero tornata a Roma e mi ero messa a lavorare per l’agenzia William Morris. A Roma eravamo in cinque, stavamo in via Nomentana 60. Le produzioni di Cinecittà ci chiedevano attori e noi glieli trovavamo. Una mattina Sergio (Leone, ndr) si era presentato in ufficio. Era teso.
Teso?
Si sedette e mi disse: ‘Ho una bella storia. Io come protagonista vorrei Henry Fonda, ma lui non ha proprio risposto. Chissà se quelli della Jolly Film (la casa di produzione, ndr) gliel’hanno fatta arrivare, l’offerta’. Fumava, nervoso. ‘Allora gli ho chiesto James Coburn, ma mi hanno detto che costa troppo. Questi non vogliono spendere una lira’, disse ancora. Gli avevano proposto anche Richard Harrison, ma non lo volle. ‘Sta qui in Italia perché in America non lavora’, la chiuse lì.
Sconsolato.
Era arrabbiato perché era convinto della bontà della sua storia e non riusciva a convincere fino in fondo i produttori. ‘Allora cosa vuoi fare?’, gli domandai. ‘Mi hanno detto di prendere uno sconosciuto che abbia il fisico adatto e costi poco. Ventimila dollari al massimo. Se possibile, anche meno. E sono venuto da te’, mi fece.
E lei?
Gli domandai che carattere avesse il personaggio. ‘E’ uno che parla poco – rispose -, e che per tutta la storia non dice mai nemmeno il suo nome’. Cercai di sapere qualcosa più: ‘Dammi almeno qualche elemento – gli dissi -. Di che età lo vorresti, l’altezza, le esperienze…’. Ma lui tagliò corto. ‘Cercamene uno te, e poi ci penso io’, disse. Quindi si alzò e se ne andò.
Da dove cominciò a cercare?
In agenzia avevamo un grande archivio grigio, di metallo, che occupava un’intera parete. Conteneva schede e fotografie di attori e attrici, centinaia di scatti. Ne tirai fuori alcuni, li misi sulla scrivania e cominciai a guardarli. E trovai lui. Aveva gli occhi chiari e stretti come due schegge di pietra. Portava questo grosso cappello (Claudia fa un gesto circolare con la mano attorno alla testa, ndr) ed era vestito da cowboy. Allora pure i registi italiani si erano messi a girare i western. Gli americani si erano stufati e noi li facevamo ancora. Poi, lo sappiamo, Sergio rivoluzionò il genere. Insegnò agli americani un nuovo modo per farli.
Quindi i miti di Clint Eastwood e di Sergio Leone nacquero da quell’archivio, in un ufficio sulla Nomentana. Per caso.
Sì, da quelle fotografie. Ricordo che a Sergio il ragazzo piacque subito: ‘Benissimo – mi disse -. Senti quanto vuole’. Credo che chiusero per 15mila dollari. Allora era una bella cifra. A Henry Fonda avrebbero dovuto dare almeno dieci volte di più.
Un affare, visto com’è andata.
Una scommessa, perché all’epoca fuori dall’America Eastwood non lo conosceva nessuno.
Com’era il giovane Clint?
Mi ricordo che quando arrivò a Fiumicino da Los Angeles ci trovammo di fronte questo ragazzo bellissimo, alto quasi due metri (Eastwood è alto un metro e 93 cm, ndr). Però quando l’ho visto mi sono spaventata.
Perché?
Perché aveva un sorriso da cavallo! Pensai: ‘Oddio, appena lo vede Sergio me lo rimanda in America’ (Claudia sorride divertita).
Un sorriso da cavallo? Clint Eastwood?
Sì, perché aveva questi denti piccoli piccoli e quando sorrideva scopriva le gengive.
E Leone? Come la prese?
No, lui in aeroporto non era venuto, poi lo aveva incontrato a Roma. Così il giorno dopo lo avevo chiamato. ‘Sergio, l’hai visto? Com’è? Ti piace?’, gli domandai. Tremavo. ‘Ha una gran faccia e mi piace come cammina – aveva risposto lui -. Ci si può lavorare’. ‘Meno male – avevo sospirato -. Ieri all’aeroporto ho temuto il peggio, perché è un bel giovanotto ma ha i denti piccoli e ogni volta che ride mostra tre dita di gengive’. E Leone: ‘Non preoccuparti, gli metto un bel sigaro in bocca e non si vedrà niente’. E così è andata. Dovendolo tenere tra le labbra, il sigaro gli impediva di mostrare i denti e gli deformava la bocca nel ghigno che ha reso famoso il suo personaggio. Non sapeva fumare, non gli piaceva, e si vedeva. Non so se poi se li sia rifatti, i denti, ma mi pare che poi sia andata meglio. Che dice? La si può raccontare questa cosa? Non credo che si arrabbierà dopo tutti questi anni, no?
Il sigaro, di certo, è rimasto nella Storia del cinema. E non solo quello.
E chi se lo immaginava. Era uno preso a due lire perché gli attori famosi costavano troppo. In America lavorava in uno sceneggiato tv (Rawhide, in italiano Gli uomini della prateria, ndr), allora si chiamavano così. Ma era uno dei tanti, recitava per la televisione, non faceva mica il cinema. Ecco perché costava poco. Quello di Leone era un film di recupero e i produttori volevano spendere il meno possibile”.
Un film di recupero?
In quegli anni con le stesse scenografie e gli stessi costumi spesso si giravano due film: una pellicola principale, quella che secondo i produttori sarebbe andata bene al botteghino, e una seconda a basso costo che veniva affidata a un regista minore, in questo caso il giovane Leone, su cui non si investiva molto e i cui incassi, anche se minimi, servivano a recuperare una parte delle spese di quello principale. Sergio doveva girare in Spagna, in una zona che assomigliava un po’ all’America ma costava meno, con gli stessi abiti e gli stessi cavalli. (Per un pugno di dollari era il film di recupero de Le pistole non discutono di Mario Caiano, ndr).
Leone trattato così, come uno qualsiasi. Perciò era arrabbiato.
All’epoca anche Sergio era uno sconosciuto, aveva fatto poche cose, nessuna da regista. Nel suo film i produttori (Giorgio Papi e Arrigo Colombo, ndr) non credevano quasi per nulla, pensavano che nelle sale sarebbe rimasto forse qualche giorno, se andava bene il tempo di recuperare un po’ di soldi, e poi sarebbe stato dimenticato. E invece….
Lo ha più rivisto?
Eastwood? No, anche perché dopo qualche anno ho smesso di lavorare nel cinema.
Ci pensa mai al fatto che quel giorno avrebbe potuto scegliere qualcun altro al suo posto e la Storia del cinema sarebbe stata diversa?
Penso spesso a quanto le scelte che facciamo ogni giorno possano influire sulle vite degli altri, a volte riescano persino a deviarne il corso. Mi è capitato in un paio di altre occasioni, e sento la responsabilità che questo comporta.
Senza di lei il mito di Eastwood forse oggi non esisterebbe.
Dice?
Lo dice lui. Una ventina di anni fa tornò a Roma per un premio e disse: “Se non fossi venuto qui a lavorare con Sergio Leone, Morricone, Dallamano, Tonino Delli Colli e il resto della troupe chissà quale sarebbe stato il mio posto nella Storia”.
Sì, se non lo avessi scelto probabilmente per lui le cose sarebbero andate in maniera molto diversa. Chissà se meglio o peggio. Chissà.