“Filippo Turetta è interpretato da un attore”, “Samantha Cristoforetti è un personaggio inventato”, “Re Carlo III d’Inghilterra è un vampiro”. Sono solo alcune tra le più inquietanti teorie del complotto che circolano in rete. Ma come nascono idee del genere? E perché si diffondono e radicano così facilmente? “Chi abbraccia una teoria del complotto è spesso una persona che ha perso fiducia nelle istituzioni”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Anna Ichino, docente di Filosofia teoretica dell’Università Statale di Milano. “Questa sfiducia scaturisce da ingiustizie e disuguaglianze. Quando le risposte non arrivano, si aprono spazi per fantasie complottiste”. Le conseguenze sono innanzitutto sociali. “Le teorie del complotto soddisfano un bisogno umano di certezze in un mondo complesso, sfruttando bias cognitivi, come quello della ricerca di responsabili a tutti i costi”, continua Ichino. Una tendenza che porta all’aumento del disimpegno civico e a un crescente scetticismo nei confronti della scienza. Perciò, secondo la docente, è necessaria un’educazione al pensiero critico, ma anche lavorare al consolidamento della fiducia tra cittadini e istituzioni: “Il complottismo è un problema di natura non soltanto cognitiva, ma anche sociale e politica”.
Come nasce una teoria del complotto e perché può risultare affascinante anche per chi si sente immune ai suoi meccanismi?
I fattori che determinano l’adesione a una teoria del complotto sono molti e complessi, ma alla radice di tutti ce n’è uno, cruciale: la sfiducia. Prima ancora che credulona, in effetti, la mente complottista è una mente diffidente. Chi crede a una teoria del complotto è innanzitutto qualcuno che ha smesso di credere e nutrire fiducia in molte altre cose: nelle istituzioni, nella comunità scientifica, talvolta anche nelle più ovvie apparenze. Questa sfiducia a sua volta spesso nasce da condizioni di effettiva ingiustizia e diseguaglianza e da squilibri di potere a cui le istituzioni non riescono a dare risposte adeguate. Non è un caso che il complottismo proliferi tra coloro che – a torto o a ragione – si sentono “i perdenti” di una certa società. È nel vuoto di spiegazioni generato da questa sfiducia che prendono piede le fantasie complottiste, che ci seducono innanzitutto perché appagano – o quantomeno promettono di appagare – alcuni importanti bisogni psicologici che tutti abbiamo.
Le teorie del complotto soddisfano il nostro bisogno di risposte e credenze? Qual è il funzionamento cognitivo alla base di ciò?
A fronte di una realtà complessa e spesso disorientante, le spiegazioni complottiste offrono risposte sicure e intuitive, sfruttando alcune nostre innate tendenze di pensiero. Come la tendenza a pensare che tutto quel che accade, accade perché qualcuno lo ha voluto (“bias dell’intenzionalità”); o la tendenza a “unire i puntini”, istituendo nessi causali tra eventi in realtà non correlati (“bias della causalità”). Così facendo, le teorie del complotto rispondono anche a un altro pressante bisogno: il bisogno di controllo. L’immagine complottista del mondo in cui tutto si tiene e ogni male può essere imputato a un colpevole è infatti un’immagine a suo modo rassicurante: pensarsi vittime di un nemico che trama contro di noi è comunque meglio che sentirsi in balia del cieco caso. Si badi però: la tendenza a lasciare che bisogni e desideri guidino i nostri ragionamenti e influenzino ciò in cui crediamo non è propria solo del pensiero complottista. È una caratteristica universale della cognizione umana, che si intensifica in momenti di crisi o stress. Siamo tutti meno razionali di quanto ci piace pensare.
Come funziona il meccanismo dimostrativo sfruttato da chi diffonde teorie del complotto?
Come sottolineano numerosi studi, chi diffonde una teoria del complotto è più preoccupato di dimostrare la falsità della “versione ufficiale” dei fatti accreditata dagli esperti, piuttosto che di difendere puntualmente la propria “teoria alternativa”. Quel che più conta è sollevare dubbi e sospetti su quella versione ufficiale, suggerendo che essa è il prodotto di un inganno su vasta scala orchestrato da un’élite di potenti per promuovere i propri interessi ai danni della collettività. Una volta postulato un inganno così esteso, poi, non ci si può più fidare di nessuna apparenza. Per questo le teorie del complotto si supportano a vicenda, e ne generano a loro volta di nuove, in una logica autoreferenziale e impermeabile alle falsificazioni dall’esterno.
Quali possono essere le conseguenze politiche e sociali del diffondersi di teorie del genere?
Le teorie del complotto giocano un ruolo significativo nel dibattito pubblico, influenzando le opinioni e i comportamenti di molti. Diversi studi hanno messo in luce come l’adesione a teorie del complotto sia collegata a una molteplicità di comportamenti anti-sociali, come l’astensionismo elettorale. Per non parlare di casi estremi in cui l’adesione a queste teorie si lega a fanatismo e violenza, sia di singoli individui (per esempio gli autori di massacri di massa, come Anders Breivik), sia di governi e regimi totalitari (basti pensare al ruolo delle teorie complotto antisemite nella propaganda nazista).
Quali strategie pratiche possono aiutarci a riconoscere e confutare certe teorie?
In linea generale, penso che comprendere i meccanismi psicologici e sociali che le governano possa aiutarci a riconoscerle quando le incontriamo nella realtà, e a evitare di caderci. È questa convinzione, per altro, che ha animato una serie di proposte a cui ho lavorato in seno al progetto del Museo della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, che ha dedicato a questi temi una mostra dal titolo “Complottismo, Fake News e altre trappole mentali”, il cui obiettivo è appunto quello di raccontare le dinamiche della disinformazione ad un pubblico ampio, soprattutto di giovani. Tra le nostre proposte c’è anche un vero e proprio gioco che permette di capire da dentro i meccanismi coinvolti, grazie a ciò che gli psicologi chiamano “strategia di immunizzazione cognitiva”. Con questo non intendo suggerire che le strategie di contrasto efficaci siano solo di natura cognitiva, anzi. Il complottismo non nasce soltanto da un deficit di razionalità, ma innanzitutto da un deficit di fiducia nelle istituzioni e negli esperti.
Qual è la differenza tra una teoria del complotto e una fake news? Come si diffondono le fake news? Penso ad esempio a Donald Trump che, pur sapendo fosse una notizia falsa ha accusato le popolazioni haitiane di Springfield di mangiare animali domestici.
Per come le intendo io, le fake news sono una categoria più ampia, che include le teorie del complotto (o quantomeno molte di esse), ma anche vari altri tipi di notizie infondate che non fanno riferimento a complotti e non hanno lo statuto di vere e proprie teorie. Queste notizie possono essere della natura più svariata – dal puro gossip sulla celebrità alla bufala su un presunto “rimedio miracoloso”, ed essere diffuse con i più svariati intenti: per screditare un avversario politico, per generare profitti, per acchiappare click….
Va da sé che anche quando non si presentano nella forma di teorie del complotto fatte e finite, le fake news possono giocare un ruolo chiave nel costruire e corroborare tali teorie. Come nell’esempio che menziona lei, in cui la fake news di Trump sugli abitanti haitiani di Springfield è andata ad alimentare le più becere teorie su presunte trame ordite dagli immigrati ai danni della società.
Come mai secondo lei molti complottismi mettono in discussione l’esistenza di persone pubbliche, come nelle recenti teorie su Filippo Turetta?
Nel rispondere a questa domanda c’è una distinzione importante da fare: quella tra “produttori“ e “consumatori“ di teorie del complotto, e cioè tra chi per primo crea e mette in circolazione tali teorie, e i molteplici utenti che ci si imbattono e contribuiscono poi alla loro propagazione. Non mi pronuncio sulle ragioni dei “produttori” (anche se nel caso delle teorie su Filippo Turetta non fatico a immaginare una matrice ideologica, di chi fatica a riconoscere la pericolosità della cultura maschilista di cui la nostra società è imbevuta…). Per quanto riguarda i “consumatori”, d’altra parte, credo che almeno parte del successo di queste teorie sia legato alla loro capacità di appagare un altro bisogno psicologico che si aggiunge a quelli che ho menzionato prima e cioè quello che gli psicologi chiamano “bisogno di unicità”: il desiderio di sentirsi un po’ speciali, in possesso di importanti verità nascoste ai più. A questo bisogno se ne lega uno di segno opposto, ma solo apparentemente contrastante. È il bisogno di appartenenza, di sentirsi parte di un gruppo, che le teorie del complotto soddisfano consentendo a chi le sostiene di manifestare la propria affiliazione a una determinata comunità: la comunità di chi “ha aperto gli occhi” e non si accoda alle versioni ufficiali.