Cronaca

Cosa resta di un evento tragico? Una pagina di giornale sul terremoto di Messina scuote la mia memoria

Un evento imprevisto e tragico scuote un’intera comunità. Tragedia, morte. E poi? Cosa resta?

Provo a rispondere a questa domanda spinta da un evento fortuito. Mio cugino svuota la cantina di casa e scuote la polvere su parte della nostra memoria. Nostra come famiglia ma anche come città. La natura che d’improvviso, famelica divora tutto. Oggi tocca ai fratelli valenciani ed è la campana che suona per tutti noi. Un evento naturale, impetuoso 120 anni fa scosse la mia città che io ancora non ero al mondo. Dopo quella che sembrò per chi la visse un’apocalisse, cos’è rimasto? Provo a rispondere in questo percorso a ritroso dal particolare all’universale.

Il racconto che sto per fare e riportare viaggia attraverso una pagina di giornale, tra le generazioni della mia famiglia, ritrovando le loro stesse parole. Quasi come si scoperchiasse una matriosca dietro l’altra, perché ogni generazione contiene la precedente al suo interno. Ed è così che andrà questa storia. Che parte da me che scrivo per voi, per tornare al 3 ottobre del 1978, giorno in cui Stelio Vitale Modica cura per la Gazzetta del Sud una pagina su una commemorazione dei soccorsi dei marinai russi dopo il terremoto del 1908 a Messina. Erano sulla nave più prossima al porto e vennero a salvarci. Salvarono anche me, anche lui che ne scrive, perché salvarono lei: Lilla Malambrì. Sua madre. Mia nonna. Perché usando la formula che tra poco leggerete da lui: chi scrive dalla prossima frase in poi è lo zio di chi scrive.

“A margine di questa rievocazione rimarrebbe una sola testimonianza viva sull’opera di soccorso prestata dai marinai russi ed è la testimonianza della madre di chi scrive. Una testimonianza che si rinnova ogni qualvolta che si verificano scosse telluriche nella nostra città, con il ricordo da parte dell’anziana donna di quei tremendi giorni vissuti tra i morti di una città morta. Ha 76 anni, oggi, la signora Letteria Malambrì, vedova del professor Francesco Modica. Parla di quei giovanotti “biondi e bellissimi” con le lacrime agli occhi. Non riesce a trattenere l’emozione. Aveva sei anni e le immagini delle ore più tragiche della storia di Messina le sono rimaste impresse indelebilmente. “Della mia famiglia – racconta la signora Modica – perirono mia madre e mia sorella, rimanemmo vivi, mio padre, mio fratello ed io, prigionieri delle macerie. Mio fratello era rimasto con una gamba incastrata sotto un pesantissimo armadio. Rimanemmo così in attesa di soccorsi. Finalmente, il giorno successivo, dopo ore ed ore di terrore, ecco apparire i giovani marinai russi. Appena appresero da mio padre che si faceva capire a segni, che sotto le macerie c’era un giovane imprigionato, non ebbero un attimo d’esitazione. Guardarono la voragine, s’organizzarono con travi e corde. Scesero fino a raggiungere mio fratello e con la sola forza delle braccia sollevarono l’armadio ed estrassero il ragazzo agonizzante. Lo portarono via in barella. Portarono via anche me, lontano dalla vista di mia madre e mia sorella morte che intanto erano state estratte anche loro ed adagiate sopra le macerie e lasciate lì.

Mi portarono sulla nave dell’ammiraglio Ponomarew. Mio fratello venne portato in infermeria. Morirà mentre gli amputano la gamba. Mio padre restò a Messina per dare manforte. Io rimasi a bordo. Un marinaio mi tenne compagnia da quando salpammo fino a Napoli. Per tutta la notte, tenendomi per mano, mi confortò facendomi passeggiare. Quand’ero stanca, mi teneva in braccio e così potevo dormire un po’. Che bello che era quel marinaio. Alto, biondo, gentilissimo. Come vorrei poterlo abbracciare a distanza di tanto tempo. Lo farò quando lo raggiungerò lassù. Spero di andare in paradiso perché soltanto lì lo potrò trovare. Sbarcati a Napoli, mi ricoverarono in un ospedale. Credo si chiamasse dei “Pellegrini”. Rimasi lì con le suore non so quanto tempo. Poi mi trasferirono in un collegio. Poi in un altro. Avevo perso mio padre. Ricordo che quando ancora ero ai Pellegrini una suora una mattina mi disse: “Lilla, guarda sempre la porta del camerone”. Guardai per ore verso quella porta che d’improvviso s’aprì e comparve un uomo alto, magrissimo. Quant’era magro! Era mio padre…”.

Non avevo mai sentito questo racconto fatto da lei. Mi era sempre stato riportato da altri membri della famiglia e quindi i fatti si erano confusi. Ora con questo ritrovamento riprendono ordine. Fu il tempo in cui una città stupenda venne distrutta e si pensò perfino di non ricostruirla, di abbandonarla alle sue macerie.

Tante volte ho provato a immaginare il mondo, la Sicilia, senza la mia città, e ho provato a immaginare cosa avesse provato, lei, mia nonna, così piccola tra i morti. Attraverso il tempo, grazie a mio zio che la intervistò, sento le sue stesse parole. E ora so che in quelle ore sotto le macerie non restò sola accanto al cadavere di sua madre e sua sorella, che suo fratello le tenne compagnia per poi morire. Restò solo lei come unica figlia dei miei bisnonni. Morì anziana, ebbe 7 figli e 14 nipoti. Mio padre il settimo figlio, Io l’ultima nipote: noi tutti ricci come lei. Perché in “quei giorni tremendi tra i morti di una città morta” c’era ancora una vita, tante vite.

C’era ancora un mondo.