Moda e Stile

Mentre il lusso è in crisi, il fast fashion macina fatturati: “Giro d’affari di 185 miliardi di dollari nel 2027”. L’esperta: “Prezzi bassi e spinta continua a cambiare vestiti, ecco perché trionfa l’insostenibilità”

Il fast fashion oggi riesce ad intercettare e soddisfare le esigenze di quella fetta (sempre più ampia) di clienti aspirazionali che sognano l'abbigliamento griffato ma non possono permetterselo

Mentre la moda di lusso attraversa una crisi esistenziale profonda, con i colossi costretti a puntare su hotel e ristoranti per salvare i fatturati in caduta libera; il fast fashion continua a marciare con numeri impressionanti, puntando a raggiungere i 185 miliardi di dollari entro il 2027. Le ultime stime di Statista prevedono una crescita del +74,5% in soli tre anni, un incremento che ridisegna i confini del mercato della moda e sottolinea come l’abbigliamento a basso prezzo (e scarsa qualità) non solo resista alle critiche, ma continui a espandersi a ritmi vertiginosi. Da Temu a Uniqlo, da Inditex a H&M, nei primi sei mesi del 2024 si registrano incrementi dei fatturati dal 3 al 17%; ma, neanche a dirlo, il ruolo chiave è giocato dal colosso cinese Shein, una macchina da guerra che fa uscire dalle sue fabbriche fino a 6 mila nuovi capi e accessori ogni giorno, mettendoli in vendita sul suo portale di e-commerce ad un prezzo medio di 7 euro. Il WSJ ha stimato il suo giro d’affari intorno ai 100 miliardi di dollari, vale a dire una cifra superiore ai suoi principali competitor, ovvero la svedese H&M e la spagnola Inditex messe insieme. Questo nonostante H&M abbia visto crescere l’utile nei primi nove mesi del 2024 del 19%, mentre Inditex ha chiuso la prima metà dell’anno fiscale con ricavi per 18,1 miliardi di euro (+7,2%). Cifre che diventano ancora più impressionanti se le si confronta con quelle del gruppo LVMH, il gigante del lusso che ha visto i suoi titoli scendere del 43% in 12 mesi; e del suo rivale Kering, le cui azioni hanno perso nello stesso periodo il 40% del loro valore. Questo perché il fast fashion riesce ad intercettare e soddisfare le esigenze di quella fetta (sempre più ampia) di clienti aspirazionali che sognano l’abbigliamento griffato ma non possono permetterselo. Alla faccia di tutte le denunce ambientaliste e degli appelli alla sostenibilità. Ne abbiamo parlato con Francesca Rulli, ceo di Process Factory e ideatrice di 4sustainability, il metodo che attesta le performance di sostenibilità della filiera di un’azienda di moda.

Negli ultimi due decenni il fast fashion ha velocizzato i ritmi di produzione, moltiplicato il numero di collezioni e dunque spinto a consumare a ciclo continuo capi d’abbigliamento e accessori che inseguono le tendenze viste in passerella. Il tutto con un impatto notevole per l’ambiente. Per lei che lavora sia con i brand che con le imprese della filiera, è davvero così?
La risposta è complessa. Se parliamo di ultra fast fashion, cioè di Shein e Temu, non ci sono dubbi: una produzione del genere non può avere niente di sostenibile, né per il modello di business che “sforna” a ciclo continuo capi d’abbigliamento a basso costo, né per il modello produttivo che punta tutto sui volumi senza alcuna attenzione ai lavoratori né all’ambiente. Se invece ci spostiamo sul fast fashion, il tema principale di insostenibilità è il primo, cioè il modello di business, perché sappiamo bene che questi grandi marchi alimentano la sovrapproduzione di capi di breve durata. Se però esaminiamo il modello di produzione, il quadro è più sfumato perché ci sono alcuni brand che si affidano a filiere controllate e a processi a minore impatto. A mio parere, il tema è culturale. È il modello di prezzo e di consumo che non va bene, perché spinge tutti gli attori coinvolti a non dare valore al capo d’abbigliamento, a non preoccuparsi della qualità, della durata e di dove andrà a finire quando sarà buttato via, perché tanto sarà un problema di qualcun altro. Sta qui l’insostenibilità. Anche ammettendo che un brand controlli i processi (e capita, anche se in pochi casi), con volumi del genere è inevitabile che diventino impattanti.

La normativa europea sulla due diligence tra qualche anno si applicherà anche ai colossi cinesi dell’e-commerce, come Shein e Temu. Nel frattempo, Shein si prepara alla quotazione alla Borsa di Londra. Perché questa operazione sta suscitando così tante polemiche?
Questa campagna nata dal basso ci dimostra ancora una volta che c’è una bella differenza tra quanto può essere dichiarato a livello di marketing e finanziario e la realtà dei sistemi di produzione e di approvvigionamento. Fino ad oggi un’azienda poteva dichiararsi sostenibile in virtù di qualche azione portata avanti a livello corporate e di un bel bilancio di sostenibilità che non includeva alcun dato sul modello di produzione e la filiera utilizzata. Le norme di cui sopra, e la due diligence in particolare, aprono il capitolo più interessante per noi addetti ai lavori: la valutazione dei rischi ambientali e sociali delle filiere e la trasparenza delle operazioni. La normativa è chiara: tutti coloro che commercializzano in Europa, compresi i colossi cinesi, dovranno mettere sotto controllo il loro modello produttivo. In caso contrario, dovranno pagare pesanti sanzioni. L’avvento del digital product passport sarà fondamentale per rendere edotto anche il consumatore che, ad oggi, non riesce a comprendere le differenze perché non dispone delle informazioni. Aggiungo anche un desiderio a questa considerazione. Se il digital product passport e la due diligence ci daranno tutte le informazioni, possiamo assumere che tutti gli attori coinvolti (istituzioni, governi, attori business to business e consumatori) daranno più valore a prodotti che non nuocciano all’uomo e all’ambiente? Magari contestando la produzione non etica anche attraverso i social, cioè gli stessi canali con cui colossi come Shein e Temu incentivano il sovraconsumo e la sovrapproduzione. In sostanza, se è vero che conoscere e avere l’informazione equivale ad avere il potere di cambiare le cose, queste normative cambieranno gli equilibri. Ecco perché qualcuno le definisce “anti fast fashion”.

Lei che opinione si è fatta sull’argomento?
Sappiamo che negli ultimi anni, anche per via delle novità normative introdotte dall’Ue, sono sempre di più i brand – anche del fast fashion – che hanno iniziato se non altro ad annunciare obiettivi di sostenibilità (per esempio per la riduzione dei consumi di acqua, l’uso di materie prime riciclate ecc.) e dotarsi di certificazioni. Il mercato li sta effettivamente premiando, oppure i clienti continuano a cercare sempre e solo il basso prezzo? Se dovessimo guardare soltanto ai volumi, diremmo ha vinto Shein: nel 2023 ha raggiunto un fatturato di 41,7 miliardi di euro, contro i 36 di Inditex. Ma la realtà è molto più complessa di così. Sintetizzando, potremmo dividere il mercato in due. Da un lato ci sono quei brand, anche del fast fashion (escludiamo Shein e Temu che sono ULTRA fast fashion), che fanno sul serio: si pongono degli obiettivi e strutturano progetti e sistemi per tracciare le produzioni, monitorare i fornitori, stabilizzare le filiere e investire con loro per ridurre l’impatto ambientale e sociale. Dall’altro lato, ci sono quei brand che dichiarano obiettivi che non raggiungeranno mai e non hanno azioni strutturate a supporto. Ci sono nomi nella prima categoria che stanno facendo scuola ma, purtroppo, ce ne sono anche tanti nella seconda. Il percorso però sta accelerando anche per l’avvicinarsi dell’entrata in vigore delle normative europee e statunitensi.

Si avvicina il black friday ed è comprensibile che in molti vogliano approfittare delle offerte, anche in vista del Natale: che ruolo hanno l’aumento costante dei prezzi e la disparità salariale nell’alimentare il business del fast fashion?
Purtroppo, per ora il consumatore fa fatica a differenziare i prodotti con reali attributi di sostenibilità; quindi, con le informazioni attuali, vince sempre il prezzo. Mi spiego meglio: se accanto al prezzo vedesse chiaramente l’impatto del prodotto o i dati sul comportamento etico e non etico del brand nei confronti della sua filiera produttiva, il consumatore sarebbe incentivato a comprare meno e meglio. A breve arriveremo a quel punto, tanto più perché l’attenzione dei media a questo tema sta portando il consumatore a farsi più domande. Il black friday è una trovata di marketing che spinge all’acquisto inconsapevole, ma parallelamente stanno nascendo i green friday e le giornate dedicate alla consapevolezza. I dati di vendita di second hand e prodotti sostenibili (o almeno contrassegnati come tali) sono in crescita, quindi abbiamo imboccato la strada giusta.

Che consiglio darebbe per cercare di fare acquisti che siano comunque ragionati e consapevoli?
Esiste una lista di domande che ogni consumatore può farsi per diventare consumATTORE del cambiamento. Le ho scritte anche nel mio libro “Fashionisti consapevoli”, che ormai ha un paio d’anni ma resta pienamente valido. Eccole:

Questo capo d’abbigliamento mi serve davvero?
Sarà ancora di moda tra qualche anno?
È semplice da lavare e da conservare?
È di qualità sufficiente per durare più di una o due stagioni?
So di che materiale è fatto e quali sono i pro e i contro di quella fibra?
Conosco la provenienza? Come è fatta la filiera che lo ha prodotto?
Mi posso fidare del brand?
Devo proprio comprarlo nuovo o posso, magari, noleggiarlo o acquistarlo di seconda mano?

Si sono appena insediati il nuovo Parlamento e la nuova Commissione europea. Quali sono i “temi caldi” a cui dovranno dedicarsi e che interessano anche il settore della moda?
Ce ne sono diversi che riguardano il settore moda, ma tra i temi più caldi a livello normativo citerei sicuramente la due diligence di filiera CSDDD, tra l’altro collegata agli obblighi di reporting di sostenibilità (CSRD) e alla direttiva sul lavoro forzato. Altrettanto rilevanti sono il Digital Product Passport, di cui attendiamo per fine anno precisazioni e linee guida, e la normativa sulla responsabilità estesa del produttore (EPR) che gli Stati membri dovranno recepire e implementare. A queste normative principali si collegano poi tante altre sotto-normative o normative correlate, legate per esempio alla tracciabilità di alcune filiere, come quelle soggette al regolamento EUDR sulla deforestazione importata. Il corpus conta una quarantina di leggi, ma quelle appena citate sono centrali perché ci dicono che ogni impresa deve integrare il proprio modello produttivo con una diversa attenzione a tre elementi essenziali: la filiera a cui si affida, il prodotto che realizza (con i suoi attributi ambientali e sociali) e la riduzione di impatto attraverso nuovi modelli circolari. Immaginiamo che ogni attore della catena del valore sviluppi attività e processi coerenti con questi tre punti fondamentali e rivoluzionari: a partire dal brand, con le sue attività creative e di sviluppo prodotto, fino a tutti i passaggi della filiera. Ecco, ciò significa essere certi della conformità alle normative ma anche, sicuramente, raggiungere importanti target di riduzione di impatto rendendo più sostenibile la produzione.