In dirittura d’arrivo alle presidenziali americane, l’impressione che si ha è di una nazione fratturata, confusa e malata di nostalgia. Svanito il sogno americano, svanita la Pax Americana da guerra fredda. La battaglia tra la prima donna nera e il miliardario di New York si svolge sul viale del tramonto della politica estera statunitense.

L’eco della guerra in Ucraina, della tragedia di Gaza e la paura di una nuova impellente guerra in Medio Oriente arriva a mala pena oltre oceano ed è solo un sussurro nella cacofonia propagandistica delle elezioni. Ma i temi principali su cui si svolge la battaglia per il voto, immigrazione ed economia, sono i corollari di questo fenomeno: gli Stati Uniti non sanno come gestire il loro nuovo ruolo geopolitico, non sanno ri-immaginarsi e quindi la nostalgia diventa la grande leva per il futuro.

Tutto ciò si evince dalla propaganda dei due candidati. Trump minaccia tariffe per difendere la supremazia del dollaro e dell’economia americana e promette di spegnere tutti i fuochi bellici. Come ci riuscirà? Usando il suo genio negli affari, negoziando: questo in sintesi il significato di The Art of the Deal, il libro dove The Donald celebra la sua abilità di businessman. Ma sono solo parole, la politica non sono gli affari. E’ impensabile che Netanyahu smetta la guerra di espansione territoriale in Medio Oriente perché Trump gli farà una proposta di pace irrifiutabile. Ancora più improbabile è che Putin sia disposto a sedersi al tavolo della pace con l’Ucraina senza aver ottenuto in privato tutto ciò che sta cercando di conquistare con ferro e fuoco.

Trump non è un grande statista, però è un eccellente comunicatore. Il suo più grande successo è stato trasformare il suo narcisismo in un movimento nostalgico popolare, il MAGA, Make American Great Again. Trovato lo slogan, lo ha lanciato alla nazione. Riempire il MAGA con contenuti non è stato difficile, chiunque poteva pescare nel secchio del passato, dal sogno americano ai valori dei pionieri. C’è stato anche chi ha affondato le mani nei contenitori religiosi, dal fondamentalismo cristiano al movimento pro-life. Risultato: la nostalgia per un tempo che non c’è più e che, a detta di Trump, potrebbe tornare ha riempito di speranza quella fetta di elettorato che si sentiva tagliata fuori dall’America post guerra fredda, l’America di Clinton, Obama e Biden.

Questa fetta di popolazione si è radicalizzata con la sconfitta del 2020. Dietrologie e fake news l’hanno spinta a vedere nell’oppositore politico il grande nemico. Ma il partito democratico e chi ne fa parte non hanno le caratteristiche necessarie per esserlo: per definizione il nemico deve venire da fuori, deve minacciare la sicurezza nazionale, l’anima della nazione. Ed ecco che questo nemico ha un alleato, gli immigrati, un alleato che viene da fuori, che parla una lingua diversa. A questo punto, il grande nemico diventa il nemico interno, un cancro che erode gli organi della nazione.

Seguendo questa logica si arriva davvero a credere che gli immigrati vadano a caccia degli animali domestici degli americani e che il loro obiettivo sia la distruzione degli Stati Uniti. Trump, il cavaliere sul cavallo bianco che sfida questo mostro, gli taglierà la testa e l’America sarà libera e grande di nuovo. Ma è sempre l’America della guerra fredda, la superpotenza occidentale in contrapposizione al nemico sovietico.

E’ tutto falso, naturalmente. Né Trump è il cavaliere né l’America tornerà ad essere una delle due superpotenze mondiali. Ma che importa? Da tempo le promesse elettorali sono solo parole, almeno il MAGA è riuscito a costruire intorno alla corsa alla Casa Bianca una narrativa da blockbuster americano.

Kamala Harris, al contrario, ha scarsissima immaginazione, è poco conosciuta ed è rimasta ingessata nel ruolo di procuratore della repubblica. Comunica poco. I suoi sono discorsi seri, per gente seria, che studia e capisce quello che lei dice. Intanto Trump balla al Madison Square Garden al suono di Ymca, sua canzone preferita, di fronte ad un auditorium di gente della classe medio bassa che non è andata all’università.

I discorsi di Harris sono atlantisti, la vicepresidente si batte per difendere il primato americano nel mondo, è aggrappata anche lei alla nostalgia del grande passato. Ma non sa come comunicarlo alle masse. Neppure l’intervento in extremis degli Obama, della Ocasio-Cortez o del confusissimo Biden riescono a mobilitare quell’America poco colta, quella che non ha mai visitato l’Europa e che va in vacanza in tenda o roulotte nei grandi parchi americani. Un’America sia nera che bianca, che non capisce cosa Harris dica.

Gli Obama hanno cercato di farci credere che è a causa di un sessismo profondo nella popolazione maschile nera che gli uomini neri non sono a favore di Kamala Harris. Può anche darsi che sia così. Ma per i bianchi e tutti gli altri il problema fondamentale della vicepresidente è un altro, è la scarsa capacità di comunicazione. Nell’era della grande comunicazione i contenuti contano meno di come vengono divulgati, è tutto immagine ormai.

In questa America profondamente nostalgica, paradossalmente, Trump promette il ritorno del grande passato ma vuole uscire dalla Nato e chiudere il paese al commercio internazionale; Harris a fianco di Biden, che ha portato avanti una politica estera egemonica e pro-globalizzazione, promette di continuarla ad oltranza. Eppure, il primo fa sognare l’elettorato, la seconda lo fa addormentare.

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