di Leonardo Botta
Le tristi cronache ispaniche ci hanno ricordato (casomai ancora ve ne fosse bisogno) quanto sia fragile il territorio che gli uomini nei millenni hanno plasmato (un po’ troppo) a loro immagine e somiglianza. Ci hanno anche ricordato le analoghe vicende italiane, da Sarno all’Emilia Romagna e alla Liguria, dalla bomba d’acqua del torrente calabrese Raganello ai tanti dissesti idrogeologici che affliggono la nostra penisola.
Dell’alluvione spagnola colpisce l’elevato numero di vittime, già superiore (ma purtroppo il bilancio è in progress) a quello delle colate di fango sarnesi del ’98. Ed è in queste ore che chi non si occupa di meteorologia sta imparando a conoscere il fenomeno noto come “goccia fredda”, o Dana (Depresion Aislada en Niveles Altos, depressione isolata nei livelli alti). Un fenomeno che si verifica quando una massa d’aria fredda in alta quota si stacca dal flusso principale, formando una bolla di depressione quasi stazionaria. Ciò determina un contrasto con l’aria calda e umida presente alle quote inferiori, innescando piogge abbondanti e temporali intensi che producono gli effetti a cui abbiamo assistito nelle scorse ore.
Gli esperti affermano si tratti di un fenomeno tipico delle coste mediterranee franco-spagnole, dunque non nuovo ma che sta ora mostrando forse un potere distruttivo superiore a quello storicamente noto a causa dell’incremento delle temperature negli strati più bassi dell’atmosfera (che ci piaccia o no, ci crediamo o no, si chiama “effetto serra”).
Qui mi fermo non avendo veramente nulla da aggiungere, per chiaro deficit di competenze, a quanto già esposto dai meteorologi.
Vorrei però proporre, agli amici lettori del blog, il ricordo di un mio viaggio a Valencia di qualche decennio fa, all’epoca organizzato nel mite periodo primaverile. Di quella gita apprezzai ciò che lessi e visitai della città (sede in quel periodo anche delle regate velistiche dell’America’s Cup), che era originariamente attraversata nel proprio centro storico dal fiume Turia. In seguito a un funesto straripamento avvenuto nel 1957, che provocò 300 morti, le autorità decisero di deviarne il corso d’acqua, dirottandolo all’esterno del perimetro urbano.
Quale risultato di questa trasformazione idraulico-urbanistica, il vecchio alveo (dalla superficie di un milione di metri quadrati) venne attrezzato con un parco dotato di piste ciclabili, campi da gioco, musei; e, soprattutto, di un gioiello di architettura contemporanea, la Città dell’Arte e della Scienza progettata dall’archistar Santiago Calatrava.
Non avendo nitida memoria di queste circostanze, sono andato ora a riguardarmi un po’ di notizie sul Parco del Turia, con l’angosciato timore che la tragedia valenciana delle scorse ore potesse annoverare, tra le varie concause, anche la deviazione del corso d’acqua del ‘57. Invece pare proprio di no: la complessa opera di ingegneria idraulica, intrapresa dopo quell’alluvione e terminata nel ’73, aveva dotato il nuovo letto del fiume di una capacità quasi doppia e un profilo plano-altimetrico più regolare rispetto a quelli del precedente corso cittadino, oltre che di opere di mitigazione del rischio come briglie e stramazzi.
Questo ha oggi scongiurato una tragedia di proporzioni probabilmente ben più gravi. Ma questa, nel momento in cui i soccorritori spagnoli stanno ancora cercando corpi senza più vita negli scantinati o negli autoveicoli sballottati dalla furia dell’acqua come esili fuscelli, è magra consolazione.