Gli Stati Uniti sono un Paese scollato che non si riconosce più in una tavola di valori comuni. E’ un esito di lungo periodo legato alla mancata volontà di governare il mutamento (sia delle amministrazioni repubblicane che di quelle democratiche) in un mondo che l’economia globale – prodotta in primis dagli Usa – rende sempre più veloce.
I positivi dati economici non garantiscono più certezze sulla solidità del sistema sociale. Dal 2009 è ripartita la ripresa dell’economia inanellando (tranne la breve parentesi della pandemia) dati positivi: incremento del Pil, buone performance di borsa (Nasdaq e Nyse) e tasso di disoccupazione attestato attorno al 4%. Già dal primo quadrimestre del 2021 l’economia era tornata sui livelli pre Covid (fonte Ispi) restando poi esente dall’incaglio della crisi energetica europea.
La crescita però non ha raggiunto tutti gli strati della popolazione lasciando una vasta area di impiego saltuario e sottopagato. L’instabilità e la contrazione degli stipendi hanno prodotto anche la crisi della classe media, ormai senza riparo in un mercato del lavoro aleatorio. Almeno sino a trent’anni fa, la classe media rappresentava il fulcro stabilizzante del Paese, un’immagine di tranquillo benessere, un salvadanaio di valori simbolici che garantiva una larga legittimità al sistema.
Il crescente divario di ricchezza che ha continuato ad accumularsi negli ultimi decenni è avvenuto con la complicità dei democratici. Non è un caso che anche il voto dei ceti meno abbienti si sia progressivamente allontanato dal partito di Kamala Harris.
Una campagna elettorale costruita sulla delegittimazione del contendente (primaria la responsabilità di Donald Trump per la pericolosa violenza verbale) ha l’ulteriore demerito di rivolgersi soltanto a porzioni del Paese con ampie fasce che non si sentono rappresentate né dall’uno né dall’altra (da non sottovalutare, come elemento di disturbo per Harris, la candidata verde Jill Stein che si presenta in 38 Stati).
L’attuale politica statunitense non dispone di progetti credibili per ricomporre il corpo sociale. Non c’è nulla di più distante dall’ambizioso disegno di Great society che si poneva l’obiettivo di “un’incondizionata guerra alla povertà”. Si affrontano singoli temi – l’aborto o le politiche migratorie – come se da soli fossero parte del tutto, talmente hanno assunto un valore identificante.
I media acuiscono livori e spazzatura, d’altro canto le polarizzazioni aumentano l’audience, poco importa quello che si semina. Ancora peggio accade con le fake news, velenose spirali (e “X” di Elon Musk non può dirsi innocente) che nutrono le teorie del complotto e, nei casi peggiori, impediscono di vedere anche le verità più abbaglianti.
Al corpo sociale che si decompone si affianca un processo demografico in rapido mutamento. Il 16% delle popolazione è nata fuori dagli Stati Uniti, come negli anni delle grandi ondate migratorie. Si tratta in maggioranza di latinos il cui inserimento è duro e va in competizione – per i lavori meno pagati – sia con i bianchi anglosassoni che con gli afroamericani. Né le amministrazioni democratiche né quella di Trump hanno saputo gestire il fenomeno, ma nel frattempo paure e asti sono aumentati e sono stati adeguatamente coltivati dalla propaganda.
Si possono capire in questa ottica le pianificate battute di Kamala Harris, non molto diverse da quelle dei repubblicani: “ho un’arma in casa”, “arrestare i clandestini”, “stretta sul diritto d’asilo”, “più sicurezza ai confini”. A Harris nuoce, inoltre, la fallimentare politica estera dei democratici con il disastroso ritiro da Kabul nel 2021 (ingombrante eredità repubblicana), con lo scoppio della guerra in Ucraina nel 2022 da spettatore a rimorchio, e con l’incapacità di frenare l’espansione del conflitto in Medioriente.
La campagna elettorale è stata lunghissima: Donald Trump l’ha iniziata dal gennaio 2021, subito dopo la sconfitta; Kamala Harris ci è entrata, dopo i preoccupanti segnali di invecchiamento di Joe Biden, nel luglio di quest’anno.
Il Financial Times del 25 ottobre ha calcolato nel 16% la quota di voti che sono in ballo nei 7 swing States, gli Stati in cui esito elettorale appare in bilico. Così, dai temi che diventano una parte per il tutto, anche pochi Stati (Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, North Carolina, Georgia, Arizona e Nevada) racchiudono un’intera campagna. Degli 1,7 miliardi di dollari spesi dai candidati, l’80% è stato concentrato sugli Stati incerti.
All’inizio degli anni Sessanta l’amministrazione Kennedy era composta dalle menti più brillanti del Paese: un talentuoso e colto avvocato, Ted Sorensen, scriveva i discorsi per il presidente. L’ideologia era un costrutto culturale utile alla lettura del mondo. Oggi si vedono solo rancorosi stati d’animo incapaci di guardare lontano.