Parlo con Nasir (nome di fantasia), al telefono. Comunichiamo in inglese, perché Faisal non conosce ancora l’italiano. Come tutti suoi colleghi, tutti provenienti dal Pakistan.

Sono gli operai dei tre stabilimenti della Vot International di Quarrata (provincia di Pistoia), l’azienda a conduzione cinese che produce materassi e divani per Mondo Convenienza. Nello stabilimento principale, quello di via Giotto, sono circa 35, fra i 20 e i 25 nel secondo, fra i 40 e i 60 nel terzo, qui quasi tutti irregolari, senza contratto. Producono i divani lavorando in catena di montaggio.

Da lunedì sono in sciopero e in presidio permanente. In 25 circa dormono ogni notte davanti allo stabilimento di via Giotto. In tanti, fra la cittadinanza, si sono mobilitati mostrando solidarietà: hanno portato coperte per affrontare le notti fredde, Libera Pistoia ha preparato e consegnato dei pasti. Gli operai non sono soli e – per fortuna – c’è chi riesce a vedere gli invisibili.

L’azienda dovrebbe incontrare i sindacati, nello stabilimento di via Giotto. Le richieste sono semplici: regolarizzare tutti i lavoratori, con contratti a tempo indeterminato, per le otto ore giornaliere, nel rispetto del contratto collettivo nazionale. Faisal lo dice in maniera cristallina: siamo in presidio permanente perché vogliamo semplicemente lavorare secondo la legge italiana, 8 ore al giorno per 5 giorni, pagare le tasse regolarmente. Amiamo l’Italia, vogliamo vivere fuori dalla corruzione.

La loro realtà è capovolta, invece: fra le 12 e le 14 ore al giorno, sette giorni su sette, nessun giorno di riposo, nessuna vacanza. Per le ore extra rispetto al contratto (per chi lo ha) si ricevono 20 euro in nero. A chi non sta bene viene detto di andarsene. I lavoratori sono trattati in maniera differente da un giorno all’altro, minacciati, picchiati.

Nasir mi racconta i dettagli di quanto avvenuto a Tahla, 22 anni, pakistano come lui: curato al pronto soccorso di Prato, ha ricevuto 7 giorni di prognosi dopo essere stato aggredito a bastonate sul volto e sulle braccia, all’interno stesso della fabbrica. Il motivo? Ha osato contattare il sindacato Sudd Cobas insieme a dei compagni, denunciando i turni insostenibili, il lavoro nero e gli abusi di ogni tipo.

Tutto ha avuto origine quando, un mese fa, l’Ispettorato del lavoro ha controllato l’azienda e parlato direttamente con alcuni lavoratori. Loro hanno raccontato ogni cosa, la ditta ha ricevuto delle penalità, ma poi ha chiuso e riaperto con un nuovo nome e una nuova ragione sociale. D’altra parte – mi spiega Nasir – lo fa almeno una volta l’anno, se non ogni sei mesi. Benché – mi racconta – ci sia stata una seconda ispezione con un nuovo colloquio con i lavoratori in presenza di un interprete, nulla è cambiato, nulla si è mosso che potesse realmente modificare la loro condizione.

Confrontandosi con il capo, un uomo chiamato “Sammy”, gli operai hanno di chiesto di non agire al di fuori della legge. Gli è stato risposto, con atteggiamento mafioso: “io non ho problemi con la legge, pago i carabinieri, se non vi piace andate via”. Ogni cosa andrà verificata, spero al più presto, dalle Procure.

A quel punto Tahla e alcuni colleghi si sono rivolti al sindacato Sudd Cobas. Subito è arrivata una domenica libera, il boss si è intimorito. Ma poi, dopo la decisione di scioperare, al momento di entrare in fabbrica (nel terzo stabilimento, il più “illegale”) Tahla è stato intimidito, ha ribattuto che stava difendendo i suoi diritti, a quel punto è stato colpito. È corso all’esterno, ha chiamato i carabinieri. È ancora molto spaventato, mi dice Nasir.

Anche io lo sono, lo siamo tutti, aggiunge. Questo boss minaccia di fotografare ognuno di quelli che stanno scioperando e inviare le nostre foto a tutte le ditta cinesi, in modo che nessuno ci dia lavoro. È potente, inserito, pieno di soldi. Si sente impunito.

Poi chiedo a Nasir di raccontarmi un po’ di sé. Scopro che anche lui è giovanissimo: 25 anni. Originario di Gujranwala, nella provincia del Punjab. Lì vivono ancora tutti i suoi familiari. A casa, stava studiando da informatico, ma dopo il diploma secondario è dovuto partire in fretta. La situazione per lui era diventata difficile, pericolosa, mi dice. È partito da solo per un viaggio estenuante, durato quattro anni, attraverso la Turchia, la Grecia, la Macedonia, la Serbia, la Bosnia, la Croazia e la Slovenia. È arrivato in Italia agli inizi di settembre del 2023.

Quello alla Vot International è il suo primo e attuale lavoro, per i primi mesi in nero, da gennaio di quest’anno, dopo varie richieste, con un contratto. Ha un regolare permesso di soggiorno, manda a casa parte di ciò che guadagna. È giovane e come tutti ha dei desideri. Se solo lavorassi 8 ore per 5 giorni – mi dice – potrei avere il tempo di studiare l’italiano, prendere la patente di guida B, magari aprire una mia attività nel settore dei trasporti. Magari potrei continuare qui i miei studi. Sono desideri che a chiunque dovrebbe essere consentito di poter realizzare.

Ieri abbiamo portato la vicenda dei lavoratori di Quarrata in Parlamento. Abbiamo chiesto al governo di mobilitarsi coinvolgendo le prefetture e le forze dell’ordine, perché siamo in uno scenario di illegalità diffusa e spesso impunita. E abbiamo chiesto al governo di garantire tutela e agibilità ai lavoratori e ai sindacati, che subiscono sui loro stessi corpi la violenza di questo sistema.

La Toscana, da Prato a Firenze a Pistoia, somiglia sempre più a una terra di nessuno in cui il lavoro non serve a vivere, ma è ciò che mette a rischio la tua vita. E questo mondo fuori legge trae la sua linfa dal sistema delle esternalizzazioni, degli appalti e dei subappalti. Ipocrita parlare di controlli, se ci si rifiuta di intervenire a livello normativo per correggere tutto ciò.

Difficile scrollarsi di dosso il sospetto di preferire una società ferita da lavoro povero, caporalato, imprenditori senza scrupoli e sciacalli a un’altra in cui ci siano minimi salariali, parità di trattamento economico tra dipendenti della ditta appaltante e della ditta appaltatrice, contratti collettivi di qualità e aderenti alle mansioni, responsabilità sociale delle aziende, tempi di lavoro rispettosi della vita delle persone.

Se si vuole tutto questo c’è un solo modo di dimostrarlo: farlo.

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