Giustizia & Impunità

Csm, 14 consiglieri a Pinelli: “Riferisca sul suo incontro con Meloni”. L’ultimo strappo (di una lunga serie) tra il vice di Mattarella e le toghe

Una lettera formale per chiedere spiegazioni su una mossa che ha spiazzato tutti, dentro e fuori dal Consiglio superiore della magistratura. Quattordici membri dell’organo di autogoverno delle toghe – cioè quasi la metà dei componenti eletti – hanno scritto al vicepresidente Fabio Pinelli, avvocato in quota Lega, per chiedergli conto del suo incontro “clandestino” con […]

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Una lettera formale per chiedere spiegazioni su una mossa che ha spiazzato tutti, dentro e fuori dal Consiglio superiore della magistratura. Quattordici membri dell’organo di autogoverno delle toghe – cioè quasi la metà dei componenti eletti – hanno scritto al vicepresidente Fabio Pinelli, avvocato in quota Lega, per chiedergli conto del suo incontro “clandestino” con la premier Giorgia Meloni, tenuto lunedì a palazzo Chigi senza un preventivo confronto con il capo dello Stato Sergio Mattarella, che del Csm è presidente, e senza darne comunicazione ai consiglieri. “Signor vicepresidente, abbiamo appreso dalla stampa della visita di ieri, nella sua veste istituzionale, alla presidente del Consiglio dei ministri”, esordisce il documento. I firmatari sottolineano subito come l’incontro si sia tenuto “in un momento particolarmente delicato nei rapporti tra politica e magistratura”: nelle stesse ore, infatti, l’Associazione nazionale magistrati protestava in assemblea pubblica a Bologna contro gli attacchi (anche personali) arrivati da politica e stampa di destra ai giudici del capoluogo emiliano che hanno rinviato alla Corte di giustizia europea il decreto sui Paesi sicuri. Non solo: nella stessa giornata altri due Tribunali, quello di Catania e quello di Roma, hanno rifiutato di applicare il decreto, in un caso giudicandolo direttamente contrario al diritto Ue, nell’altro rivolgendosi ancora una volta alla Corte di Lussemburgo. Attirandosi così nuovi strali dal vicepremier leghista Matteo Salvini, che ha dato loro dei “giudici comunisti” accusandoli di rendere l’Italia un “Paese insicuro”.

Insomma, il faccia a faccia tra Meloni e Pinelli – il primo da quando entrambi occupano le rispettive cariche – non è arrivato in un giorno qualsiasi. E ora, dopo che il Colle ha già fatto trapelare chiaramente il suo fastidio, i consiglieri di palazzo Bachelet pretendono di sapere di cosa i due abbiano parlato. “Le chiediamo di volerci rendere edotti, nel plenum di domani o nella sede meglio ritenuta, dei contenuti di tale incontro, affinché questo Consiglio possa avere contezza di un passaggio tanto rilevante istituzionalmente“, scrivono al vicepresidente. La missiva, istituzionale nella forma ma durissima nella sostanza, porta le firme dei sei consiglieri togati del gruppo progressista di Area (Marcello Basilico, Francesca Abenavoli, Tullio Morello, Genantonio Chiarelli, Antonello Cosentino, Maurizio Carbone), dei quattro “moderati” di UniCost (Marco Bisogni, Michele Forziati, Antonino Laganà e Roberto D’Auria), di Mimma Miele di Magistratura democratica (altra storica corrente di sinistra) e dei due eletti indipendenti, Roberto Fontana e Andrea Mirenda. Ancora una volta, invece, hanno scelto di sfilarsi i sette magistrati rappresentanti di Magistratura indipendente, la corrente di destra più vicina all’attuale governo, che in questa consiliatura ha stretto un’alleanza di ferro con i laici espressione dei partiti di maggioranza. Tra i consiglieri eletti dal Parlamento ha firmato solo Roberto Romboli, costituzionalista scelto dal Pd, mentre si sono tirati indietro il renziano Ernesto Carbone e Michele Papa, professore in quota 5 stelle.

L’episodio è solo l’ultimo strappo nell’ambito di un rapporto più che travagliato tra Pinelli e il Consiglio. Da quanto è stato eletto, infatti, l’avvocato leghista ha interpretato il suo ruolo in modo ben poco super partes, atteggiandosi più o meno apertamente come alfiere degli interessi della maggioranza di governo. In questo senso ha fatto scandalo la sua scelta di violare in varie occasioni la prassi istituzionale, esprimendo voti decisivi a favore dei candidati graditi al centrodestra in occasione delle nomine dei vertici di importanti uffici giudiziari: la prima volta il procuratore di Firenze (quando intervenne per garantire la vittoria a Filippo Spiezia nella sfida contro Ettore Squillace Greco), poi il procuratore di Messina e i presidenti delle Corti d’Appello di Catanzaro e di Reggio Calabria. Già lo scorso luglio si era consumata una rottura senza precedenti in occasione del voto sulla nuova circolare sull’organizzazione delle procure, il documento che disciplina le regole interne degli uffici inquirenti di tutta Italia: con un lungo intervento in plenum, Pinelli aveva attaccato di fatto l’intera categoria dei magistrati inquirenti con argomentazioni dal sapore vetero-berlusconiano. In risposta, tutti i consiglieri togati – inclusi quelli di Magistratura indipendente – avevano letto in assemblea un comunicato durissimo sfiduciando di fatto il numero due del capo dello Stato, accusandolo di voler delegittimare i pubblici ministeri. Il clima, insomma, era già praticamente irrecuperabile. E dopo questo episodio lo è ancora di più.