Ambiente & Veleni

Valencia: la difesa del suolo va costruita dal basso, come feci a Genova nel 1992

Dialogo tra un passante e un geometra davanti un garage ipogeo
Passante. Chi è mai l’architetto che ha progettato un accesso così scomodo ai box?
Geometra. Leggi regionali.
Passante. Perfino un Suv di due tonnellate con 300 cavalli fatica a scavalcare il dosso. E che dire delle prese d’aria simili a funghi velenosi? Vergogna!
Geometra. È una prescrizione regionale per i garage interrati. Penalizza tutte le zone turistiche a media e bassa pericolosità idraulica. Lei ha ragione, ma Lei ben sa che la burocrazia ci tormenta.
Passante: Chi è mai l’imbecille che ha concepito questa nefandezza?

Il Geometra Comunale fu colto da un sospetto e si voltò verso di me, ma ero scomparso.

Morale:

Colsi questo dialogo — parecchio ingentilito nella breve sintesi qui proposta — qualche anno fa. Oziavo nel piccolo centro storico di Albisola Capo, il mio luogo del cuore, ed ero incuriosito da quel passante somigliante un’archistar un po’ scolorita. E mi ero subito defilato, ratto come un furetto, giacché l’imbecille che aveva osato concepire e poi proporre e supplicare quella regola così fastidiosa ero proprio io.

Alla vigilia della Colombiadi genovesi del 1992, la regola non esisteva ancora, quando il prefetto interpellò un paio d’idraulici di buona volontà. Egli doveva assentire all’enorme autosilo ipogeo in costruzione sotto la Piazza della Vittoria, 600 posti auto. La discussione dei progettisti con gli esperti chiamati al capezzale prefettizio, in memoria di comuni esperienze di Protezione Civile, non fu pacata. Architetti e costruttori accettarono assai a malincuore di sopralzare gli accessi e ogni altra connessione con l’esterno.

Nel seguito, in più di una occasione, la piazza è stata inondata dalle acque del fiume sepolto, il Bisagno, o dalla tracimazione dei rivi minori, senza che un filo d’acqua sia penetrato nel garage. Un analogo autosilo privato, costruito nelle vicinanze in quegli stessi anni, non aveva seguito la stessa strada. L’ultima alluvione saliente, quella del 2014, sommerse più di 100-200 veicoli, per fortuna senza vittime. Non era la prima volta, perché il fenomeno si era verificato tal quale durante l’alluvione del 1992.

Forte di queste esperienze, ho maturato la convinzione che la difesa del suolo vada costruita dal basso e non dall’alto. Alcune misure apparentemente banali possono evitare che un disastro si trasformi in una catastrofe. Come ho scritto molte volte su questo blog, l’auto è l’arma più tremenda dell’arsenale di Giove pluvio: nove vittime su dieci dell’uragano Harvey (2017) sono state provocate dal rapporto bacato tra uomo e auto. E l’autosilo è il suo cavallo di Troia, come tragicamente sperimentato ad Aldaia pochi giorni fa.

Sulla catastrofe valenciana non ho ancora elementi sufficienti. Ho avuto la Università Politecnica di Valencia come partner in vari progetti scientifici degli anni ’90 del secolo scorso e dei primi anni del millennio. Posso quindi escludere che in campo scientifico sia mancata la consapevolezza del rischio idraulico in quell’area.

Posso solo anticipare che trovo affatto ignobile e, soprattutto, del tutto irrilevante la disputa tra chi reclama il cambiamento climatico e chi lo nega. Per certi versi, l’umanità sta ripetendo storici errori, per esempio l’attitudine con cui affrontò la Peste Nera del XIV secolo.

Guardare la questione idrogeologica dall’alto, manifestando un infantile stupore di fronte ai dati di pioggia, serve a poco, perché bisogna guardare a quanto accade al suolo, magari “misurando” ciò che accade, come suggeriva a suo tempo Leonardo da Vinci.

Invertendo i fattori di un aforisma attribuito a Mark Twain, le bizze del meteo sono ciò che ci becchiamo, il clima che cambia ciò che ci aspettiamo, ragionevolmente, da tempo. Sospettiamo che l’uomo possa influenzare il clima almeno dal 1896, quando il futuro premio Nobel Svante Arrhenius pubblicò Sull’influenza dell’acido carbonico nell’aria sulla temperatura del suolo. E sottolineo la parola “suolo”.

La conoscenza condivisa dalla grandissima maggioranza degli studiosi del clima risale almeno a trent’anni fa, quando pubblicai Effetto serra. Istruzioni per l’uso (1994). Scrissi allora che “per quaranta milioni di secoli, il Sole e la Terra hanno governato le forze che modellano il clima del nostro pianeta. Come un topolino, che si agita tra le zampe di un elefante, l’uomo sta diventando una forza decisiva alla guida della macchina climatica: volente o nolente, il genere umano è oggi protagonista di un esperimento e l’oggetto di questo esperimento è proprio il clima della Terra. Non si può certo affermare che l’umanità abbia intrapreso questo esperimento consapevolmente, né che lo stia proseguendo in modo intenzionale. Non si può negare, però, che si tratti di un vero e proprio esperimento”. Ebbene, non si può negare che stiamo forzando l’esperimento con parecchio vigore, intenzionalmente o meno.

Sulla catastrofe valenciana ci sono molte cose da capire. Interverrò su questo blog più avanti, se avrò capito qualcosa, anche perché a breve partirò per Vienna. Sono stato invitato alla cerimonia della consegna di un premio scientifico, ricco quanto prestigioso, a una mia allieva, poi collaboratrice e quindi collega italiana, che ha perfino scelto di rimanere in Italia. Si tratta del Prince Sultan bin Abdulaziz International Prize for Water, assegnato a Maria Cristina Rulli.

Un vecchio professore si compiace di aver ricevuto qualche riconoscimento, ma è assai più gratificato se viene premiato un allievo. Non è la prima volta che accade, ma questa volta la motivazione mi è particolarmente cara, trattandosi di un premio alla creatività.