Mondo

Donald Trump, retorica di pancia e insulti: così debolezze e punti di forza coincidono. Ma è sempre più stanco

Non c’è essere vivente che nell’ultimo mezzo secolo abbia sollevato odi più tenaci, e un’adorazione più forsennata, di Donald Trump. Per alcuni è, semplicemente, “l’uomo del destino”. Per altri è chi metterà fine a quasi 250 anni di esperimento americano. Le debolezze di Trump, in fondo, coincidono con le sue doti. È questa particolarità che ne rende così accidentato il percorso politico. È questo l’elemento costante, irrinunciabile, di ogni sua uscita pubblica. È questa la dimensione che ne alimenta il mito. Le debolezze di Trump sono la sua forza.

Dopo il tentato omicidio di Butler, era sembrato che l’ex presidente pensasse di percorrere questa campagna elettorale da unifier, da unificatore dell’America sempre più sgomenta e spaccata. “Sarò il presidente anche di coloro che non mi appoggiano. È ora che il Paese metta le discordie da parte per realizzare ciò che è in suo potere”, aveva detto Trump nel discorso conclusivo alla Convention di Milwaukee. Il proposito è durato lo spazio di qualche ora. Alla notizia della designazione di Kamala Harris, Trump ha reagito definendo la sua avversaria una “lunatica”, “dura come la pietra” e “pazza”. Da allora questa campagna elettorale è stata segnata da sparate, polemiche, accuse, insulti, balle, minacce, in un crescendo inarrestabile che potrebbe sfociare il 5 novembre in una truffaldina proclamazione di vittoria di Trump, nel caso dalle urne uscisse un risultato a favore di Harris, o comunque incerto.

Proprio Harris è stata in questi mesi l’oggetto privilegiato degli insulti del tycoon. “Demente”, “con un quoziente intellettuale bassissimo”, sono stati gli epiteti più frequenti lanciati contro di lei. Ma il campionario esibito da Trump in questa campagna elettorale è vastissimo. Si va dalla richiesta di usare l’esercito “contro i nemici interni”, il giorno delle elezioni, alle accuse ai democratici di aver votato leggi a livello statale per sopprimere i bambini già nati, sino all’ormai eterno, ed eternamente riproposto, refrain sui brogli elettorali del 2020. In mezzo c’è stata la retorica più selvaggia mai usata contro i migranti da un politico statunitense di primo piano. Migranti che in Ohio mangiano i cani e i gatti. Migranti che hanno occupato un comune in Colorado e da lì gestiscono traffici illeciti. Migranti che rubano i “black Jobs”. Migranti che “avvelenano il sangue degli americani”.

È andata intanto avanti la più clamorosa opera di dissolvimento dei principi di realtà e di verità mai realizzata nella storia politica globale. Trump ha accusato il governo federale di offrire agli sfollati per gli uragani del Sud solo 750 dollari, ma ha anche sostenuto che sarà capace di risolvere il conflitto a Gaza “perché c’è stato” (ovviamente, non è vero). Non sono ovviamente mancate le minacce ai nemici. Liz Cheney dovrebbe essere portata davanti a un plotone di esecuzione. Quanto ai giornalisti, Trump ha espresso la speranza dell’attacco di un pazzo ai loro danni, durante un suo comizio. Si è così arrivati a due giorni prima delle elezioni, con il candidato repubblicano che ha spiegato che non avrebbe mai dovuto “lasciare la Casa Bianca” a gennaio 2021. Trump si è peraltro sempre rifiutato di dire che riconoscerà la legittimità del voto, nel caso dovesse vincere Harris. Sono dichiarazioni che ovviamente rilanciano la possibilità del caos, e di violenze, nelle ore successive alla chiusura dei seggi.

Nella gestione della campagna, ancora una volta a passo di carica, Trump si è del resto affidato al suo istinto. Molti tra i suoi collaboratori e tra gli stessi deputati e senatori repubblicani gli chiedevano toni più prudenti, in grado di rassicurare i moderati repubblicani e gli indipendenti, elettori che potrebbero tranquillamente votare a destra, quanto a immigrazione ed economia, ma che non lo fanno perché a disagio di fronte a egotismo e vocazione allo scontro. Trump si è fidato del suo istinto, e questa potrebbe trasformarsi in un rischio, quindi una debolezza, al momento del voto. Messi dinanzi all’eventualità di altri quattro anni come quelli tra il 2016 e il 2020 – anzi, probabilmente molto peggio – diversi elettori potrebbero scegliere di passare oltre e liquidare una delle stagioni più conflittuali della storia americana. Trump si è comunque affidato al proprio istinto anche su un’altra cosa. L’immigrazione. Non è mistero che molti tra i suoi collaboratori gli chiedessero di fare dell’economia il tema centrale della campagna repubblicana. Trump, recalcitrante a ogni tipo di script, ha per un tempo limitatissimo rispettato le indicazioni. Poi ha deciso che “l’economia è noiosa” e ha invece usato l’immigrazione come strumento principale della campagna. L’istinto gli suggerisce del resto che saranno proprio le paure sull’immigrazione a fargli vincere queste elezioni. Di qui, lo scatenamento di una retorica senza precedenti, contro gli immigrati “stupratori, ladri, omicidi”.

È dunque proprio l’“istinto” la possibile, e più significativa, debolezza della campagna 2024 di Trump, ciò che alla fine potrebbe fargli perdere anche solo poche migliaia di elettori, in una campagna che però probabilmente si risolverà sul filo di poche migliaia di voti. All’istinto si ricollega poi un altro elemento importante. L’età. A 78 anni, Trump resta un uomo vigoroso, ma la fatica fisica e psicologica di una campagna elettorale si fanno sentire. Nelle ultime settimane, ai comizi, è apparso sempre più stanco. La voce roca. L’eloquio spento. L’incapacità di contenere la vaghezza erratica del discorso. A ciò, si aggiungono le sempre più frequenti esplosioni verbali contro i nemici. È una dimostrazione di senilità, che potrebbe portare parte dell’elettorato a considerare attentamente la scelta di affidargli il proprio futuro.