“Le volevo dire soltanto, le volevo chiedere di valutare la mia posizione per quella che è e mi auguro di trovare in lei quel giudice di Berlino che tutti ci auguriamo di incontrare”. A parlare così, rivolta al giudice Paolo Magro, è Laura Bonafede, amante per anni di Matteo Messina Denaro. Sono parole pronunciate nell’udienza dell’11 giugno, durante le dichiarazioni spontanee al processo nel quale è accusata non solo di avere favorito la latitanza del boss di Castelvetrano, ma anche di aver fatto parte dell’associazione mafiosa. Oggi è arrivata la sentenza in primo grado: 11 anni e 4 mesi di carcere. Bonafede ha rilasciato la sua versione dei fatti tenendo in mano un foglio che consulta: “Ci sono solo le date”, assicura lei al giudice che lo annota. Un manoscritto grazie al quale ripercorre i fatti, negando la sua appartenenza alla mafia, provando a salvare anche la figlia e la madre che “non sapevano nulla”, restituendo il racconto di un rapporto d’amore con Messina Denaro, di cui lei avrebbe conosciuto solo “il lato buono”, che era “divertente, spiritoso, educato”.
La maestra di Castelvetrano, figlia di Zu Nardu, Leonardo Bonafede, considerato il capo mandamento di Campobello di Mazara, durante il lungo monologo in aula svela anche l’identità che si cela dietro uno pseudonimo usato nello scambio epistolare con l’ex latitante. Un disvelamento che voleva fare anche ai carabinieri del Ros, ma che ha poi deciso di rivolgere solo al giudice: “Poi mi sono trattenuta, perché ho detto: l’unica persona a cui io posso raccontare la verità è il giudice, colui che mi deve giudicare, ed è arrivato il momento”. Il Solimano, nome di un imperatore ottomano (Solimano il magnifico), menzionato nella corrispondenza con MMD, è Antonio Messina, “zio di mio marito, il fratello di mia suocera”. Anziano massone, avvocato, Messina fu condannato per traffico di droga negli anni Novanta, poi radiato dall’ordine perché accusato – e poi scagionato – di essere il mandante dell’omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto (per il quale furono condannati Totò Riina e Mariano Agate). La sua casa a Campobello e quella estiva a Torretta Granitola furono perquisite pochi giorni dopo l’arresto del boss di Castelvetrano. Bonafede in udienza parla così dello zio del marito: “Messina Denaro mi aveva detto che cercava un modo di incontrarlo per intimargli di smetterla di millantare amicizie, perché lui millantava l’amicizia di Messina Denaro per andare nei negozi, nelle attività pubbliche, magari sfruttando questa amicizia per avere regalata la camicia o per subirne dei vantaggi”.
Eppure Bonafede, nei pizzini ritrovati dagli investigatori nel covo di Campobello di Mazara, usava altri toni: “Non potevamo immaginare che un Solimano di merda ci avrebbe distrutti” scriveva al boss il 19 dicembre 2022. Cosa avrebbe fatto l’ex legale massone per distruggerli è uno degli aspetti sul quale sta indagando la procura di Palermo, guidata da Maurizio De Lucia. Di certo dai pizzini traspare una rabbia che non emerge dalle dichiarazioni spontanee della donna: “Che Solimano tenesse tanto al denaro l’ho sempre capito, gli piace spendere e fare soldi facili ma mai avrei potuto pensare che arrivasse a tanto – scrive ancora al boss stragista il 22 dicembre del 2022, meno di un mese prima del suo arresto avvenuto il 16 gennaio – Secondo me oltre al denaro è legato alla paura di quell’avvertimento che lui pensa di Uomo (Nardo Bonafede, ndr) ma che, in realtà, era di Depry (MMD, ndr). Io penso così e una volta me lo hai confermato pure tu. Quando dici che gliela farai pagare, che non ti fermi, ti posso dire che ne sono certo, ti conosco anche sotto questo aspetto. Non ti nego che mi sarebbe piaciuto che avessi fatto ‘due piccioni con una fava’; Solimano e Pancione. Ma Pancione ci sta pensando da solo, mangia come un porco, nemmeno può camminare più”. Pancione è invece lo pseudonimo usato dai due amanti per riferirsi a Fano Napoli e così parla di lui Bonafede al giudice: “A me questa cosa di Fano Napoli dava pure fastidio perché mi era balenato per la mente magari che ne parlava così… forse magari mi aveva visto qualche volta in macchina o qualche cosa…”.
Non solo pseudonimi. Dalle dichiarazioni della donna emerge anche come il latitante si sia mosso liberamente per Campobello perfino andando in spiaggia per il falò di ferragosto: “Una confusione infernale perché tutti i paesi vicini usano la spiaggia di Tre Fontane per fare questo, e quindi è un buon modo anche per incontrarsi e confondersi tra la folla”. Una lunga storia d’amore? La prima volta che si incontrano lei era poco più che una bambina, e se ne ricorda bene, poi un gap temporale interrotto quando lo rivede assieme al padre Ciccio Messina Denaro: le offrono protezione dopo l’arresto del padre Nardo e del marito, Salvatore Gentile, nel 1996, quando cioè sono entrambi latitanti. La relazione prende piede, invece, dal 2008, stando al suo racconto, con degli accorgimenti. Eppure Messina Denaro lo poteva anche incontrare casualmente, come fu nella primavera del 2015: “Un incontro casuale – racconta Bonafede – perché lui a quanto pare girava tranquillamente anche al mio paese, quindi, quando mi vedeva lui mi riconosceva ma io non conoscendo…”.
La relazione si interrompe perché improvvisamente il boss deve inasprire le misure di sicurezza, ma continuerà con uno scambio epistolare, poi con gli incontri del sabato mattina alla Coop di Campobello. Proprio l’ultimo incontro ha permesso agli inquirenti di risalire a lei: nel covo del latitante fu trovato lo scontrino della Coop del 14 gennaio, due giorni prima dell’arresto. Era poco dopo le 11, gli investigatori hanno acquisito le immagini che mostravano l’incontro fugace tra i due amanti di fronte al salumiere. Così gli inquirenti sono riusciti a risalire alla maestra, arrestata il 13 aprile successivo. Una donna cresciuta in un contesto mafioso: “Io sono nata in una famiglia purtroppo mafiosa e ho vissuto fin da bambina con questo clima”, ha raccontato. Innamorata di un boss in età adulta e di un altro già da bambina: “Io nonostante ho vissuto in un contesto mafioso sono stata una figlia amata e ho voluto bene a mio padre perché la sua vita era una cosa ma la vita di genitore era un’altra, quindi non si può… una bambina, una persona che non ha mai subito, come si dice, violenze, non ha mai subito un rimprovero, non ha mai sentito alzare la voce a un genitore nei suoi confronti può solo amarlo, questo ci tenevo a dirglielo, nonostante avere vissuto in quel contesto”. Un racconto che ha riempito 14 pagine di verbale ma che non ha convinto l’accusa, rappresentata in aula dai pm Gianluca De Leo e Pierangelo Padova, coordinati dall’aggiunto Paolo Guido, che hanno chiesto per la donna 15 anni di carcere.