Martedì sono apparso su Rai 3, nella trasmissione “Leonardo: Scienza e Ambiente,” per discutere di psicologia (e psicopatologia?) delle elezioni americane. Le politiche americane, si sa, coinvolgono tutti, poiché esercitano un effetto a cascata sulle principali questioni globali che l’umanità intera si trova ad affrontare. Come dice la famosa frase: “Quando l’America starnutisce, il mondo prende il raffreddore”. Ma qual è la psicologia dietro queste elezioni 2024 a stelle e strisce? Come vengono percepite a livello cognitivo, emotivo e comportamentale dagli elettori americani?

Prima di procedere con un’analisi più approfondita, vorrei esaminare alcuni contributi recenti di istituzioni di ricerca che hanno esplorato il tema. Il primo è l’ultimo sondaggio dell’American Psychological Association (APA), intitolato “Stress in America: Una nazione in fermento politico”. Il sondaggio ha evidenziato una popolazione alle prese con numerosi fattori di stress, tra cui le elezioni, che risultano essere la terza fonte di stress più comunemente segnalata, dopo le preoccupazioni sul futuro del paese e sull’economia. Altri problemi politico-sociali citati come fonti significative di stress includono: a) la politica statunitense (62%); b) l’assistenza sanitaria (55%); c) violenza e criminalità (54%); d) l’ambiente (51%); e) tensioni e conflitti globali (51%); f) leggi e regolamenti sulle armi (49%).

Un altro tema emerso è la polarizzazione e ostilità partitica, che ormai rappresentano un elemento strutturale della vita politica statunitense. Sempre più spesso, i repubblicani e i democratici non solo vedono negativamente il partito avversario, ma nutrono sentimenti negativi anche verso i suoi sostenitori, descrivendoli come disonesti, immorali o poco intelligenti. La demonizzazione dell’avversario politico ha portato a una vera e propria deumanizzazione dell’altro.

Un tema forse ancora più rilevante riguarda la crescente frustrazione verso il sistema bipartitico. Quasi la metà dei giovani adulti americani dichiara di “volere più partiti tra cui scegliere”. Questo sentimento si riflette nei risultati di un ulteriore sondaggio, secondo cui quasi la metà degli elettori ritiene che i due principali candidati manchino di empatia e non siano attenti ai bisogni della gente comune.

Non è solo la mancanza di empatia verso i cittadini a influenzare le elezioni Usa, ma anche l’empatia selettiva che ha portato le politiche americane a trattare in modo diverso le vittime civili dei massacri a Gaza e in Ucraina. Come spiegato in un articolo scritto insieme ad Alessandro Ferretti per la rivista MicroMega, “Gaza è diventata lo specchio attraverso il quale osservare i nostri doppi standard morali e l’etnocentrismo culturale che ci pervade”. Un recente sondaggio dell’Institute for Social Policy and Understanding, condotto in tre stati chiave (Georgia, Pennsylvania e Michigan), ha rivelato che la “guerra” a Gaza rappresenta una delle principali preoccupazioni politiche per la maggioranza degli elettori musulmani (61%). Inoltre, una parte significativa degli elettori si trova a dover scegliere tra due candidati percepiti come favorevoli al genocidio. Come afferma Norman Finkelstein: “Non posso votare per loro. Hanno ucciso 15.000 bambini.”

Un articolo apparso su Slate spiega che molti elettori opteranno per l’unica candidata che si è opposta fermamente al genocidio e all’invio di armi a Israele. “Sì, voteranno davvero per Jill Stein. Vivono in Michigan, Pennsylvania e altri stati chiave. Voteranno ‘per coscienza,’ anche se questo dovesse consegnare la Casa Bianca a Donald Trump”.

Lo stress negli Usa ha causato, e continua a causare, non solo le cosiddette “morti della disperazione” — un aumento di mortalità tra i bianchi di mezza età americani senza paragoni recenti in altri paesi ricchi — ma anche quello che potremmo definire “i voti della disperazione”. Rischiare di far vincere Trump pur di non schierarsi contro un genocidio rappresenta la quintessenza dell’autolesionismo e della decadenza morale dei partiti di centro-sinistra occidentali.

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